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  • Immagine del redattoreAlessandro Manno

Fabio Aru: ultimo atto


Nel momento in cui Fabio Aru entra nella Sala stampa dell’Unione Sarda la stanza è in un silenzio irreale. È passato un mese da quando Fabio, subito dopo il podio alla Vuelta a Burgos e poco prima della partenza per la Vuelta a España, ha annunciato tramite i suoi canali social il ritiro dal ciclismo professionistico, ma ancora in pochi sembrano credere che sia arrivato quel momento.


Una scelta che, per chi segue uno sportivo ma anche per lo sportivo stesso, si spera sempre possa arrivare il più tardi possibile. Per Fabio la decisione arriva dopo un periodo molto travagliato, dopo i 3 anni alla UAE Team Emirates, il ritiro al Tour de France e il passaggio alla Qhuebeka-Assos con cui ha corso e concluso la sua ultima corsa da professionista il 5 Settembre a Santiago de Compostela.


L’arrivo nel capoluogo galiziano, tappa finale dell’omonimo Cammino percorso ogni giorno da migliaia di pellegrini, non può che creare dei parallelismi profondi con quella che è stata la carriera di Aru e il Cammino di Santiago. Un percorso che nel corso della conferenza stampa Fabio ripercorre e che parte non dai piedi dei Pirenei bensì dalla Bergamo di Oliviero Locatelli, suo primo direttore sportivo alla Palazzago che lo ha “…formato come uomo e professionista” e che ricopre un ruolo tra le persone importanti per lui nel corso della sua carriera, assieme all’ex-compagno di squadra Paolo Tiralongo, la famiglia e la compagna Valentina.

E sono proprio gli affetti il filo rosso di tutto il cammino di Fabio che, rispondendo alle domande dei giornalisti presenti, non si stanca mai di continuare a ripetere quanto per lui sia stata importante in questi anni la presenza della sua famiglia e di quanto la volontà di dedicarsi ad essa sia stata uno dei motivi che lo hanno convinto della bontà della scelta di ritirarsi.


È un ragazzo che ha sofferto Fabio, lo si vede dalla difficoltà con cui racconta gli anni difficili all’UAE dove non è riuscito a rendere quanto avrebbe voluto e pesantemente condizionati dall’operazione all’arteria iliaca che gli ha impedito di esprimersi ad alti livelli come aveva fatto ad inizio carriera all’Astana dove ha raccolto tutti i suoi successi da professionista.

A sentirlo parlare si nota tanta maturità e tanta consapevolezza del percorso fatto, anche se è lui stesso ad ammettere quando gli si chiede quale sia il suo ricordo più bello: “Probabilmente il campionato italiano perché veniva dopo un periodo molto difficile, dove avevo dovuto saltare il Giro che partiva dalla Sardegna. Ma devo dire che è passato ancora troppo poco tempo per riuscire a realizzare quanto è passato”.


Già il tempo, quel nemico/amico che inesorabilmente scandisce la vita di uno sportivo e che nel caso di Fabio sembra aver corso troppo in fretta, come quando nel corso di una cronometro vieni raggiunto dal corridore che partiva subito dopo di te (Pippo Ganna docet). Talmente veloce che, come ammette Fabio stesso, non ha ancora deciso cosa fare ora che ha appeso la bici al chiodo: “Da dopo il mio annuncio di ritiro, ho iniziato ad avere un po’ di proposte da varie aziende con cui ho lavorato quando correvo e ce ne sono state anche negli ultimi giorni. Ovviamente mi farebbe piacere non abbandonare quella che stata la mia vita negli ultimi anni. Per quanto riguarda salire su una ammiraglia come direttore sportivo non mi ci vedo per il momento, ma mai dire mai. Il motivo è che non voglio stare via 220 giorni l’anno ma fare qualcosa che non mi faccia stare via troppo tempo”.


Una delle poche certezze, oltre al fatto di potersi finalmente dedicare alla sua famiglia, è quella di investire maggior tempo per i ragazzi della sua Academy e aiutare a creare le condizioni per migliorare il movimento ciclistico in Sardegna, la sua isola nella quale non è mai riuscito a correre da professionista ma per la quale ha tanti progetti: “Mi piacerebbe riorganizzare la PedalAru che mio malgrado non si è potuta tenere in questi ultimi anni, sia per le mie stagioni che sono finite sempre più tardi sia a causa del Covid. Mi dispiace che dietro di me, a parte Porta, non ci siano altri corridori ma vorrei dare il mio contributo per far crescere il movimento, anche se dovrei capire come. Il fatto che io sia stato bravo in bici non vuol dire che io sia bravo anche in altro (ride, ndr). Qualunque cosa farò sarà per farlo bene”.


Fabio è fermo nella sua decisione, sorride ripercorrendo le tappe della sua carriera e ricordando l’amore per la Spagna, luogo di tanti ritiri e tante gare ricche di soddisfazioni; tra tutte la vittoria nel 2015 a Madrid della Vuelta a España.

C’è un peso enorme però che grava sulla sala, che nessuno vuole mostrare e che nessuno vuole nominare. Gli ultimi anni in UAE che hanno ferito Fabio e i suoi tifosi che lo hanno fatto bersaglio di una serie di vergognosi insulti e allusioni al suo ingaggio, a detta di tanti sproporzionato; ad andare bene a vedere assolutamente congruo visto che al momento della firma Fabio aveva appena conquistato il titolo di campione italiano e aveva battagliato coi primi sulle strade del Tour de France. Un’aggressione mediatica che ne ha inevitabilmente condizionato la carriera dal punto di vista emotivo, in un mondo che dopo averlo caricato di responsabilità e aspettative lo ha scaricato non appena le cose iniziavano ad andare male.

Se c’è una lezione che Fabio ha imparato in questi anni è che alle volte essere diffidenti e non fidarsi di coloro che ti ruotano intorno soltanto nei momenti positivi non è sempre un qualcosa di negativo, ma anzi essere diffidenti ti dà la possibilità di cercare le persone importanti di cui fidarsi davvero.

Guardando retrospettivamente la carriera di Fabio si rimane stupiti dal comportamento con il quale è stato trattato a pochi anni di distanza dai suoi successi più entusiasmanti. A momenti sembra quasi di parlare di un atleta che nella sua carriera non ha vinto nulla, ma che si è semplicemente limitato a vivacchiare nel professionismo. La velocità con cui si dimenticano dei successi e almeno il doppio di quella con cui si ricordano i successi, in un meccanismo perverso a cui tanti nel ciclismo moderno, che si corre a ritmi forsennati e con gare attaccate l’una di fianco all’altra, non riescono a fare fronte.

Per certi versi la macchina del fango che ha colpito Fabio è la stessa che in questi giorni sembra colpire un altro giovane enfant-prodige del ciclismo mondiale, Remco Evenepoel che dopo non aver raccolto i successi che tanti si aspettavano da lui, si è visto affibbiare il titolo di “sopravvalutato”


Quanti ciclisti e quanti sportivi ancora dovranno cadere sotto la scure sommaria delle critiche gratuite a mezzo stampa e via social da pseudo sostenitori che non fanno altro che scaricare le proprie frustrazioni su dei ragazzi che fanno sacrifici immensi per poter correre?

Quanti Saronni dovranno essere lasciati liberi di parlar male di un proprio ciclista in mondovisione mettendo in dubbio il suo stato di professionista?

Quanto bisognerà ancora vedere ciclisti bruciati a 19 anni perché non in grado di resistere alla pressione mediatica ingiustificata?

Ha senso continuare a credere che la mente debba essere sempre e comunque forte, soltanto perché si viene pagati tanto?

O si inizierà a comprendere che questo mondo in cui ci sentiamo in dovere di sapere tutto di tutti in qualsiasi momento e che rincorre il pettegolezzo e la polemica per vendere due copie di giornali in più non è più sano?


Quest’anno tanti sportivi ci hanno messo in guardia sull’importanza dell’equilibro psico-fisico nel corso di una carriera per riuscire ad esprimersi al meglio e di quanto sia importante prima dei numeri e dei calcoli in allenamento, un ambiente familiare nel quale poter passare la propria vita professionale.

La strada da percorrere è chiara: smettere di chiedere agli atleti di essere degli eroi infrangibili e iniziare a considerarli come persone normali che compiono enormi sacrifici sin da quando sono nati per essere lì. Lo sport vive di emozioni, non vive di polemiche, di drammi e neanche di medaglie d’oro al collo. Uno sport che viene raccontato solo per i successi e non per le imprese in grado di emozionare pur non avendo ottenuto il massimo risultato perderebbe gran parte del proprio sapore.


Quella di Fabio stata una grande impresa: partire da un paesino nel Medio-Campidano, valicare il Tirreno, andare a vivere lontano da casa, sognare di diventare un professionista allenandosi giorno per giorno, faticando sulle salite, partecipare a un Giro d’Italia, primo sardo a farlo, già di per sé è un’impresa straordinaria.

Se poi arrivi anche a vincere allora parliamo davvero di un sogno ad occhi aperti.


Le telecamere si spengono e i giornalisti presenti iniziano a scattare foto e montare i servizi. Poi c’è chi cerca il titolo giusto per il pezzo o la foto da accompagnare l’articolo.

E forse la foto migliore è quella scattata all’arrivo di Santiago, al termine del Cammino e della carriera di Fabio. La catarsi dell’anima e il senso di liberazione negli occhi di chi ha dato tanto e continuerà a dare tanto a questo sport meraviglioso.

La leggerezza nell’alzare le braccia al cielo e salutare idealmente tutti coloro che hanno sempre corso al suo fianco, da quando tanti anni fa valicò il Tirreno carico di sogni, non pensando che sarebbe stato così difficile, ma neanche così bello.


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