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  • Alessio Arriu, Matteo Cardia e Lorenzo Pucci

L'altalena dei diritti umani: dialogo con Riccardo Noury




Cosa significa aver dedicato la propria vita alla difesa dei diritti umani?

“Significa sperare ogni giorno che alla fine della giornata ci sia una buona notizia, e non mancano mai. Questi anni sono passati velocissimi perché sono stati un’altalena di cattive e buone notizie. Quello che ti fa andare avanti è la consapevolezza che questo tipo di azione, che è la mia e quella degli attivisti di Amnesty, produce un cambiamento”.


Non ha dubbi Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia dal 1980, quando parla di quella diventata una missione di vita. Anni, ore, giorni, minuti, scanditi dall’arrivo di buone e cattive notizie, motivi per combattere, per gioire e per continuare a comprendere il mondo perseguendo sempre lo stesso obiettivo insieme a migliaia di attivisti: la difesa dei diritti umani. Noury è stato a Cagliari e Sassari per presentare il suo ultimo libro, “Molla chi boia, la lenta fine della pena di Morte negli Stati Uniti D’America” (Infinito Edizioni, 2022), e il report sulle condizioni di vita dei palestinesi in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, rilasciato da Amnesty International lo scorso febbraio. Temi che sono stati affrontati anche nella nostra intervista.


Partiamo da quello che indaga tra le pagine di “Molla chi boia, la lenta fine della pena di Morte negli Stati Uniti D’America”. Dai dati sembra che l’utilizzo della pena capitale stia andando verso un lento declino nonostante gli ultimi anni dell’era Trump negli Stati Uniti. Perché e come sta accadendo, quali sono i segnali che lo stanno lasciando intendere?

“Diminuiscono le esecuzioni, diminuiscono le nuove condanne a morte, c’è una maggiore consapevolezza sull’uso arbitrario spesso inficiato dal pregiudizio razziale nei confronti dei condannati a morte, finalmente uno stato del sud, la Virginia, l’ha abolita. È come se la mattanza della fine della presidenza Trump abbia svegliato un’anima abolizionista dormiente e ho pensato che questo momento storico dovesse essere raccontato, con tutti i limiti perché non è certo che questa tendenza abolizionista acceleri, però intanto c’è e dobbiamo tenerne conto”.


Negli ultimi giorni avete ripreso a chiedere con insistenza il rilascio di Ahmadreza Djalali ricercatore svedese-iraniano condannato a morte in Iran, a testimonianza di come la pena di morte non sia solo un problema degli USA. Quanto nel mondo la pena capitale è ancora un pericolo per l’essere umano?

“Se noi vedessimo su una mappa geografica la rappresentazione dell’uso della pena di morte vedremo un’enorme macchia nera nell’Asia che equivale alla Cina e ad altri stati come il Vietnam, la Corea del Nord. Un’altra macchia nera brutta in Medio Oriente: Arabia Saudita, Iran, Iraq. Abbiamo l’Egitto che sta nell’Africa del Nord e poi gli Stati Uniti. Ogni anno registriamo più o meno 20 stati che applicano la pena capitale su un totale di 194 tra quelli che compongono la comunità internazionale. Non c’è dubbio che anche a livello globale la tendenza sia anche più veloce nell’abolizione rispetto che negli Stati Uniti”.


Come agisce Amnesty per combattere questa piaga e cosa possono fare i cittadini per essere sensibilizzati e per sensibilizzare gli altri sul tema?

“I cittadini possono fare tantissimo, lo stanno facendo centinaia di migliaia di persone, anche a Cagliari, e per Ahmadreza Djalali, il medico svedese iraniano. Mentre noi parliamo mancano 48 ore alla sua impiccagione, data per certa entro il 21 maggio. Ahmadreza però è vivo, non stiamo facendo le commemorazioni funebri ma stiamo facendo gli ultimi sforzi per salvarlo. È nel braccio della morte da 6 anni per una accusa di spionaggio a favore di Israele, e non ha fatto nulla del genere. Non solo speriamo che questa esecuzione non abbia luogo, ma che non inizi un altro periodo in cui bisognerà attendere un’altra data di esecuzione”.


Passando a un altro tema molto importante, il tre maggio scorso era la giornata mondiale per la libertà di stampa. È uscita la classica classifica di Reports Sans Frontières, voi avete fatto tante manifestazioni contro il bavaglio imposto sui media russi sulla guerra in Ucraina e siete molto attivi sul caso di Julian Assange. Qual è dal vostro punto di vista la condizione della libertà di stampa nel mondo e perché è importante che Assange non venga estradato negli Stati Uniti?

“La storia di Assange è rilevante perché rischia tanto. Se estradato dalla Gran Bretagna verso gli Stati Uniti rischia un processo iniquo perché tutti hanno già dichiarato prima del processo che è colpevole di spionaggio. Si parla di una pena di 170 anni di carcere, preceduta da un processo irregolare e dal carcere duro che equivale alla tortura. Se dovesse essere estradato sarebbe la fine del giornalismo investigativo, che viene considerato una minaccia da tutti quei governi che non vogliono far sapere le loro malefatte. Quindi è in gioco la libertà di stampa nel suo essere più profondo, che è la libertà di raccontare gli abusi di potere. Nel caso di Assange si parla di crimini di guerra, in altri casi sono violazioni dei diritti umani, corruzione, collusione con la criminalità organizzata. Il panorama a livello globale è grigio: ci sono una ventina di giornalisti in carcere in Bielorussia, ci sono già nove giornalisti assassinati in Messico quest’anno, in Russia è stato messo il bavaglio a tutti media indipendenti e ci sono 150 giornalisti in esilio. In Egitto, Iran e Cina abbiamo tanti giornalisti in carcere.


E l’Italia?

“L’Italia è nella classifica di Reporters Sans Frontières è in un posto che non ci fa onore, in un posto di basso medio livello. E perché lo è? Perché, intanto, per una considerazione che è evidente a tutti, ed è l’assenza di un’editoria pura nel nostro paese. Ma soprattutto perché la libertà di stampa non è la libertà di scrivere quello che si vuole, ma quello di farlo senza subire conseguenze. E quando tu hai trenta tra giornalisti e giornaliste sotto scorta, pochi dei quali famosi, molti sconosciuti freelance, soprattutto donne e soprattutto del sud Italia, allora quella classifica poco decorosa per noi si spiega perfettamente”.


Proprio una giornalista, Shireen Abu Akleh, è stata uccisa lo scorso 11 maggio a Jenin, in Palestina. Si è aperto un dibattito sul “doppio standard”, visto anche il modo di affrontare quanto accade in Ucraina rispetto ad altri conflitti e situazioni dimenticate. Lei cosa ne pensa?

“Occuparsi tanto dell’Ucraina non è una colpa. È stata una colpa non aver usato la stessa emotività nei confronti di cause che meritavano di essere appoggiate, e l’elenco è lunghissimo. Quello che possiamo augurarci è che dopo le vicende di una guerra dentro l’Europa, ci portino a occuparci, dovessero accadere altre guerre altrove, di quelle guerre con maggiore attenzione e ci porti ad accogliere con più generosità. Io trovo antipatico dire “Eh allora perché avete fatto questo e non avete fatto quell’altro”. Essendoci occupati di tutto il resto, almeno noi, a noi nessuno può rimproverare niente perché c’eravamo sempre. Non c’è dubbio che l’uccisione di Shireen ha fatto tornare per un giorno i giornalisti a far parlare di cosa accade nei territori occupati. L’idea che debba morire una collega perché i suoi colleghi si debbano occupare di quello che accade lì è invece un po’ triste”.



La carica delle forze israeliane sui partecipanti al funerale della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh | Fonte foto Il Fatto Quotidiano

In questi giorni parlerà anche del report sulle condizioni di vita dei Palestinesi in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati. Quali sono le accuse che Amnesty muove verso Tel Aviv e che peso hanno le limitazioni imposte da Israele sulla vita dei palestinesi?

“Pesano in un modo incredibile da decenni, dal punto di vista della libertà di movimento, dal punto di vista del godimento dei diritti economici e sociali: parlo della terra, dell’acqua e delle risorse. Il diritto a lavorare, che è penalizzato da tutti, dal sistema dei permessi, dai posti di blocco. Pesa a tal punto che Amnesty International ha trovato che siamo stati gli ultimi a definire questo sistema di dominazione, di oppressione e di riduzione di un popolo come soggetto inferiore destinatario di normative militari, di normative abusive, di uccisioni, arresti indiscriminati, detenzioni amministrative e altro ancora, come un crimine di apartheid.

Questo è evidentissimo a Gaza, è evidentissimo nei territori occupati. Anche i palestinesi all’interno di Israele subiscono discriminazioni. Abbiamo monitorato tutto il sistema, e laddove viene perpetuato, attraverso leggi e regolamenti, un sistema che riduce a un livello inferiore una popolazione, per il diritto internazionale prende il nome di apartheid.


Oltre alla volontà, cosa manca alla comunità internazionale per cambiare le cose?

“Se posso usare una metafora calcistica è come se ci fosse una squadra che gioca in 11, una che gioca in 5 e manca pure l’arbitro. Fuori di metafora non c’è un focus sui diritti umani, c’è un focus totale sulla sicurezza di Israele e manca quello sui diritti umani. E quando c’è questo squilibrio per cui si negano diritti umani per garantire sicurezza, fatalmente c’è qualcuno che paga le conseguenze. E quando dico che manca l’arbitro, dico che manca un sistema di leadership internazionale che possa coniugare le esigenze di sicurezza con il rispetto dei diritti umani”.






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