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  • Immagine del redattoreMatteo Cardia

L’importanza delle parole di Cesare Prandelli


È difficile capire quando è giusto fermarsi. Nessuno ti avverte, nessuno ti dice che qualcosa dentro sta crescendo.

Quel qualcosa, che non ha un nome né una vera e propria definizione, Cesare Prandelli l’ha definita come «un’ombra», nella sua lettera d’addio alla panchina della Fiorentina e – probabilmente – alla carriera da allenatore.

Piano piano quell’ombra si è presa lo spazio che un tempo era impensabile prendesse: l’ha fatto velocemente, allo stesso ritmo di un mondo del calcio in cui Prandelli dice di non riconoscersi più. [1]


I dubbi di un tempo restavano sul manto erboso, non andavano oltre. Meglio la quantità o la qualità? Meglio che sudi il pallone o che sudino di più i calciatori? Problemi mai risolti e che ancora oggi creano il dibattito più limpido che si possa avere nel mondo del calcio. A questi però se ne sono aggiunti altri. Il terreno allora si è fatto pesante, come se una pioggia abbondante avesse continuato a scrosciare negli ultimi trent’anni.


L’aziendalizzazione del calcio non ha fatto bene al gioco, e seppur in parvenza può aver fatto bene a tanti calciatori e allenatori, nella realtà dei fatti il benessere economico non è sempre corrisposto al benessere mentale. L’entrata in campo di milioni di introiti ha messo in moto un circolo per alcuni versi vizioso, che non ha smesso di allargarsi e di fare le proprie vittime nel corso del tempo. Pressioni continue, tempi ristretti, responsabilità che si moltiplicano su più fianchi. Un sistema divenuto meccanicistico e che non permette nessun tipo di pausa o tentennamento. Che non coinvolge solamente i piani più alti dei campionati, ma anche quelli dove gli attori principali non vedono grandi cifre ma subiscono ugualmente la forza degli ingranaggi del congegno.


Quello dello sport è un versante dorato, almeno in superficie, del mondo del lavoro di oggi: la produttività che rimane più importante di ciò che è intorno al mestiere e di chi lo interpreta. Dove è difficile riconoscere le vittime perché chi avrebbe più voce in capitolo ha difficoltà o paura a parlare. Perché nella cultura sportiva italiana, soprattutto calcistica, paura e sconfitta non sono contemplate, né da chi amministra il gioco, né dal pubblico. Non è possibile far trasparire le proprie crepe perché rovinerebbero uno status quo utile agli altri ma non al proprio io. [2]

Se il problema all’estero è più conosciuto [3] [4], in Italia gli esempi quasi non esistono. [5] Per questo, le parole di Cesare Prandelli non solo sono importanti per la sua persona: lo sono anche perché aprono uno squarcio nell’illusorio mondo perfetto degli sportivi.


Nell’ammettere il dolore non vi è sconfitta: c’è il rispetto verso sé stessi e verso gli altri, c’è il tentativo di darsi una opportunità nonostante l’oscurità. Una lezione per un mondo che si spinge oltre i limiti posti dal tachimetro della nostra vita, privilegiati o meno si sia. Una lezione per tutti noi.


Fonti: [1] AC Fiorentina, Lettera di Cesare Prandelli, 23 marzo 2021,

https://www.acffiorentina.com/it/news/tutte/extra/2021-03-23/lettera-di-cesare-prandelli [2] Alessandro Manno, Perché in Italia lo sport nazionale è il tiro al bersaglio, Toc Toc Sardegna, 10 dicembre 2020, https://www.toctocsardegna.org

[3] BBC, Ben Chilwell: 'Talk to someone' if you're struggling with mental health, 6 novembre 2020, https://www.bbc.co.uk/sport/football [4] Kevin Love, To Anybody Going Through It, The Players' Tribune, 17 settembre 2020, https://www.theplayerstribune.com/articles/kevin-love-mental-health

[5] Alessandro Gazzi, Giocare con le gambe che tremano, l'Ultimo Uomo, 3 novembre 2020, https://www.ultimouomo.com/alessandro-gazzi-ansia/

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