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  • Immagine del redattoreRoberta Cancellieri

La generazione dell’ansia del successo


Ho appena letto di una studentessa diciannovenne trovata morta, suicida, all’università perché sentiva di aver fallito negli studi. La notizia mi ha disturbato. E mi ha disturbato così tanto perché sento di poterla capire.


Mi ricordo che prima della mia laurea nel fatidico 2020, uno degli ultimi mesi in cui stavo faticando a terminare la tesi sono uscita a prendere un aperitivo al bar con un amico. Parlavamo della sua di laurea, della base di voti da cui partiva e del risultato che avrebbe potuto ottenere; lui non era molto soddisfatto, ma io sono partita subito alla carica affermando, convinta, che con tutte le difficoltà della pandemia il traguardo più grande era arrivare alla fine del percorso e sapevo che lui si era impegnato al massimo. Che possiamo chiedere di più da noi stessi? Inoltre, il voto non rispecchia il nostro valore. O sì?


Io tutte queste cose le pensavo davvero. Le penso tutt’ora. Ma appena terminato di pronunciare queste parole, mi è salita l’angoscia perché ho cominciato a pensare alla mia laurea imminente.

“Perché questo non vale anche per me?” mi sfuggì questa frase a voce alta e guardai il mio amico con una disperazione che per la prima volta prendeva una forma concreta.


Va bene se gli altri rispettano i propri tempi, le proprie capacità, lo sforzo massimo che possono dare in quel momento, rispettando se stessi e la propria sanità fisica e mentale. Va bene e anzi sono la prima a spingere affinché loro si riconoscano questo diritto e la possibilità di non essere perfetti. Allora perché non riuscivo e non riesco a fare lo stesso anche con me? Perché sentivo che, nonostante sapessi quanto fossero difficili e bui per me i mesi che stavo passando, non potevo accettare da me stessa niente di meno della perfezione? Erano le mie aspettative o quelle degli altri? O meglio, quelle che ero convinta fossero le aspettative degli altri nei miei confronti.


A volte siamo schiacciati da qualcosa tanto effimero, quanto forte, come le percezioni che abbiamo di ciò che pensano gli altri di noi, di ciò che altri si aspettano da noi o che vorrebbero per noi. Ma sono solo percezioni. Altre volte quello che ci ossessiona è l’immagine che vogliamo proiettare di noi, persone forti, sicure, infallibili, senza macchia e senza paura. Queste cose sono talmente radicate in noi che anche nel momento in cui cominciamo ad accettare che gli altri, amici e parenti, possano dimostrarsi fragili, o urliamo con forza a gran voce che un 110L o un 98 non ti definiscono, sentiamo che questa realtà ha un'eccezione che conferma la regola, e sei tu.


Sradicare tali convinzioni, le nostre ossessioni e il potere che diamo alle percezioni di influenzare il nostro umore, le nostre giornate e in alcuni casi la nostra stessa esistenza, é un percorso lungo. Lungo e faticoso, che a volte non può basarsi solo sulla nostra forza di volontà. Di questo si dovrebbe parlare nei giornali, in tv, nelle classi, nei circoli di colleghi, in Parlamento: di quanto oggi sia comune sentirsi così, soprattutto nella fascia d’età che comprende studenti e studentesse dell’università e giovani alla ricerca di un lavoro e di un posto nel mondo. Sapere che anche la persona che sta seduta accanto a te in biblioteca potrebbe sentire la stessa frustrazione che senti tu potrebbe salvarti la vita o rendertela più leggera.


Ogni momento della vita abbiamo un “nostro massimo” che possiamo dare: quello deve essere il nostro orizzonte, non il “massimo degli altri”. Possiamo sbagliare, possiamo fallire, nella vita è normale. Non credo sia un crimine riuscire a laurearsi per tempo, in anticipo o col massimo dei voti, né aspirare a migliorarsi ogni giorno di più, ma di certo non deve esserlo avere un percorso diverso dagli altri. Abbiamo tutti un po’ di colpa: scuola, famiglia, amici, università, datori di lavoro, imprese, i mezzi di informazione, lo Stato. Tutti contribuiamo a formare e rafforzare questi meccanismi e queste convinzioni se non prendiamo una posizione netta contro e non ci rimbocchiamo le maniche per cambiare la realtà intorno a noi.


Io non so come avrei reagito a un fallimento, in quel momento in cui ero così vulnerabile da non vedere nessuna luce in fondo al tunnel. Non lo so perché il risultato che ho ottenuto alla laurea rifletteva l’immagine che sentivo di dover dare all’esterno, per far vedere che avevo un valore. E per quanto sapessi e sappia quanto tutto ciò sia sbagliato, ancora oggi faccio fatica a modificare quel pilota automatico che abbiamo tutti installato da piccoli e che determina i limiti oltre i quali ci sentiamo un completo fallimento.

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