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  • Francesco Ortu

Le eredità del 9 maggio


Il 9 maggio del 1978 è una data marchiata con il fuoco, ma soprattutto con il sangue, nella lunga sequela di tristi avvicendamenti che hanno caratterizzato la complessa e oscura fase della “Prima Repubblica”.


Questa giornata ha ottenuto varie denominazioni nel tempo: “La notte della Repubblica”, oppure ancora “Il funerale dello Stato”, nomencaltura che, parafrasando i Modena City Ramblers, unanimamente ricorda Via Caetani e il ritrovamento, senza vita, di Aldo Moro, un evento che cambiò per sempre la realtà italiana, segnando un prima e un dopo. Tuttavia, la morte di Moro non fu l’unico pegno che la società italiana, logorata dagli “Anni di Piombo”, dalla Guerra Fredda, dal cospirazionismo, dallo stragismo e dalla lotta di potere, dovette affrontare e sopportare. Nel medesimo giorno un altro personaggio, destinato a segnare anch’esso un pre ed un post, cadde sotto la scure di un’altra piaga nostrana, la Mafia: stiamo parlando di Peppino Impastato.


Moro e Impastato sono due protagonisti che costituiscono due estremi opposti e siderali, quasi inconciliabili. Da una parte un rappresentante dello Stato, istituzionale ed elegante volto del potere, di una Democrazia Cristiana attenta al sociale, di una visione cattolica per certi versi aperta e progressista, come testimonia la breve, seppur intensa, stagione del “centro-sinistra” organico. Un'esperienza politica che conseguì importanti risultati economici e sociali: lo Statuto dei Lavoratori, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la Legge sul Divorzio. Coerentemente con la dottrina sociale della Chiesa di cui si faceva promotore, si mostrò umanamente e politicamente vicino, e soprattutto sensibile, alle problematiche che sorgevano proprio in quegli anni, e che trovarono conflagrazione nel 1968. A costui si contrapponeva un giovane rappresentante della politica dal basso, della resistenza sociale e civile contro quel fenomeno che lui stesso, nelle trasmissioni della sua Radio AutAut, definiva senza troppi fronzoli una “montagna di merda”. Proveniente da una famiglia mafiosa, ma di fede comunista e operaista e membro di Democrazia Proletaria, Peppino si oppose, culturalmente e socialmente, a quella formazione criminale che disprezzava e odiava e che risiedeva solo a 100 passi dalla sua abitazione, come ci ricorda la storica canzone I Cento Passi deii Modena City Ramblers. Brano che contribuì a diffondere e raccontare la sua storia, per tempo adombrata dalla tragedia che si verificò lo stesso giorno nonché dal disinteresse nazionale per un evento, occultato sotto forma di suicidio, accaduto nella più profonda periferia. Nonostante la netta antitesi fra i due protagonisti e fra i loro percorsi, entrambi hanno avuto un posto nel pantheon degli eroi civili e delle grandi personalità nazionali. Contestualmente entrambi hanno lasciato una pesante eredità, la quale ha determinato uno spartiacque storico, politico e civile per l’Italia in ogni suo anfratto e dimensione.


In primo luogo, prendiamo lo statista pugliese. La sua morte costituì non solo un “attentato al cuore dello Stato”, ma il naufragio definitivo del disegno di progresso iniziato dieci anni prima e che avrebbe avuto una naturale chiusura con il “Compromesso Storico”. La prematura scomparsa distrusse tale percorso, non solo riconfermando la forma e la potenza di un apparato colluso e intrinsecamente reazionario, ma distruggendo ogni possibilità di dialogo, di apertura e di partecipazione allo sviluppo sociopolitico italiano. Per le sinistre la morte di Moro fu uno spartiacque, ideologico e psicologico, principiando il progressivo spostamento dell’asse di giganti come il PCI che vedendo sparire ogni possibilità di accesso alle sale del potere pose il governismo nell'unico obiettivo suo e delle sue successive manifestazioni. La stessa figura di Moro fu ridotta a un santino per manifestare l’unità, svuotandone il lascito da politico e da riformatore quale fu. Il suo assassinio fu quindi l’emblema di una sconfitta il cui peso riverbera tutt’oggi.


In secondo luogo, la morte dell’attivista siciliano ebbe un effetto completamente opposto. L’attentato alla sua vita lo rese un’icona di quel conflitto sociale, ma anche culturale, contro la realtà delle cosche, dei mandamenti e delle commissioni mafiose. La sua seppur breve attività costituì la nascita di un movimento sociale collettivo, volto allo sradicamento e alla sconfitta di quel brutto male che attanagliava la società. Un fenomeno ben rappresentato dai suoi coetanei, dai compagni di lotta, dall’aiuto della famiglia. Il tutto rappresentato in maniera egregia dalla scena del funerale della pellicola diretta da Marco Tullio Giordana a lui dedicata. Oggi, grazie all’attività di Giovanni e Felicia Impastato, non solo la mafia a Cinisi è stata sradicata, ma le stesse ex-proprietà della famiglia locale, i Badalamenti, i mandanti dell’omicidio, sono divenute musei e centri d’attività, luoghi di eventi volti a testimoniare la storia, la lotta e le conquiste che sono sbocciate dalla figura di Peppino. Una morte, un martirio che lascia un’eredità di riscossa, e non è raro per questo vederlo raffigurato in modo simile al famoso scatto del “Guerrillero Heroico” di Che Guevara, parallelismo che testimonia pienamente il suo impatto.


Seppur con strascichi diversi, il 9 maggio ci deve permettere di ricordare, senza alcun filtro ideologico, ciò che entrambe queste figure hanno significato per il nostro Paese. Per fare ciò è necessario liberarli da qualunque elemento folkloristico e agiografico in modo da apprezzarne, in valore assoluto, il loro operato, valutandoli o rivalutandoli nel modo più concreto possibile. Restituendo dunque alla storia il proprio ruolo di maestra.


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