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  • Immagine del redattoreGiulio Ardenghi

Mio figlio è un mansplainer


In un recentissimo articolo [1] pubblicato lo scorso aprile, la scrittrice americana Jamilah Lemieux “accusa” suo figlio di nove anni di essere un mansplainer. Ovviamente il suo articolo intende essere costruttivo e parlare di come sia possibile insegnare ai propri figli i valori della parità di genere fin da una tenera età. Tuttavia, il messaggio resta chiaro.

Ma ora, cosa significa essere un mansplainer? È una cosa tanto grave da portare una madre a far sapere a tutto il mondo che il suo stesso figlio si sia macchiato di tale colpa?


Innanzitutto, è necessario definire cosa si intenda con la parola mansplaining. Come si può facilmente intuire, si tratta di una contrazione tra le due parole inglesi man (ovvero “uomo”) e explaining (ovvero “spiegare”). Il mansplaining è dunque una pratica sessista che vede l’uomo rivolgersi alla donna per spiegarle in modo condiscendente faccende relative alle problematiche di genere che lei sa meglio di lui, spesso esponendo i fatti in maniera semplicistica e/o stereotipata.


È anche interessante notare che il suffisso -splaining non viene utilizzato solo in questo frangente. Capita spesso di sentir parlare anche di whitesplaining, richsplaining, ablesplaining [2], heterosplaining e, perché no, womansplaining. E chiaramente si può aggiungere il suffisso a qualunque categoria di persone, qualora ve ne sia la necessità.


Il suffisso -splaining in generale e il concetto di mansplaining in particolare non mancano di ricevere critiche. La prima, la cui origine si può probabilmente far risalire agli ambienti politici di stampo più conservatore, è che il solo parlare di mansplaining implica che gli uomini siano in qualche modo inferiori e che non venga concessa loro la libertà di espressione su certi argomenti solo per il fatto di essere uomini. Dall’estremità opposta dello spettro politico proviene un’altra critica, che attacca il concetto di mansplaining perché presuppone una visione essenzialista del genere, ovvero attribuisce a uomini e donne delle caratteristiche innate e fisse, che non possono essere cambiate.


Quello su cui molti critici sono d’accordo è che, ancora prima di giudicare se il concetto stesso di mansplaining (o di tutti i termini con lo stesso suffisso) abbiano ragion d’essere, è necessario assicurarsi che il termine non venga usato a sproposito. Ad esempio, non necessariamente un uomo che prende posizione o semplicemente parla di tematiche di genere è colpevole di mansplaining. Eppure spesso il termine viene utilizzato per silenziare qualcuno e chiudere il dibattito velocemente, anche quando l’accusa risulta infondata. In questo caso, si può dire che chi si comporta in questo modo stia commettendo la fallacia logica nota come ad hominem, nella quale si attacca personalmente il proprio interlocutore anziché rispondere alle argomentazioni che questo sta portando.


Come per molti altri fenomeni di simile entità, bisogna essere consapevoli che essi esistono e che sono da prendere sul serio. Bisogna tuttavia anche evitare l’estremo opposto, ovvero quello di muovere accuse così pesanti senza quartiere, anche verso coloro che invece cercano e meritano di prendere parte a un dialogo. E molto probabilmente additare il proprio figlio di nove anni davanti a tutto il mondo dandogli del mansplainer non è la soluzione migliore per ottenere la parità di genere.

Fonti e note:

[1] Lemieux, Jamilah, My 9-year-old is a bit of a mansplainer, Slate, 23 aprile 2021, https://slate.com/human-interest/2021/04/nine-year-old-mansplainer-care-and-feeding-advice.html [2] Parola che si riferisce alla pratica di alcune persone abili di “spiegare la disabilità” a persone che sono esattamente in quella condizione.

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