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  • Immagine del redattoreAlessandro Manno

Parlare dei giovani senza parlarci


Camminando per le strade delle nostre città capita sempre più spesso di vedere fiumi di ragazzi ammassati l’uno a fianco all’altro, radunati a gruppi nelle principali piazze e luoghi di ritrovo, apparentemente senza un motivo chiaro. Probabilmente per un occhio poco attento, il motivo non solo non è chiaro, ma probabilmente è del tutto inesistente.

Perché stare radunati a decine seduti su delle panchine a bere? Perché stare ammassati ad urlare nelle piazze della città disturbando i passanti e gli abitanti dei quartieri? Perché abbandonare la spazzatura accumulata ai lati dei muri? Perché questi ragazzi hanno l’irrefrenabile bisogno di prendersi a colpi in pieno centro città per motivi assolutamente inutili?

Ecco appunto, perché?

A queste domande si rischia di dare risposte troppo spesso approssimative, piene di stereotipi e accompagnate da un tono saccente e paternalistico di chi sembra non sia mai stato giovane e di chi non ha mai commesso un errore in tutta la sua vita. Ma questo non è un gioco a chi ha più ragione o torto, né una sterile ricerca di un colpevole come va tanto di moda in questi tempi. Non è un gioco a chi la sa più lunga, né una stupida gara al rialzo a chi è più retto moralmente.

Quello che sto cercando di proporvi oggi non è soltanto una semplice constatazione di un problema reale ed esistente, che è il disagio giovanile, ma anche l’umile tentativo di portare delle riflessioni per cercare di invertire il flusso di questo grave fenomeno.

La trattazione sui media locali e nazionali del disagio giovanile è avvenuta in concomitanza con una serie di gravi episodi di cronaca che hanno coinvolto ragazzi molto giovani. Di alcuni fatti ci siamo occupati anche noi di TocToc Sardegna (qui potete trovare l’articolo del nostro Nicola Baita), mettendo in evidenza le cause che portavano a queste situazioni di disagio giovanile che poi sfociavano in atti violenti, come le risse al Pincio a Roma, quelle verificatesi nei giorni scorsi a Cagliari in pieno centro, o ancora i problemi che da un paio di mesi a questa parte stanno interessando la città di Oristano. Come già ben evidenziato da Nicola nel suo articolo il lockdown ha avuto ripercussioni importanti sulla vita dei più giovani che sono stati privati di ogni tipo di socialità con i propri coetanei e possibilità di sfogo e di svago. Ciò non va certo a giustificare il fatto di andare in giro a pestarsi vicendevolmente per le vie del centro, ci mancherebbe altro. Tuttavia, ci deve servire da spunto di riflessione per capire quanto davvero la nostra società e il nostro sistema Paese ha a cuore il futuro dei giovani.

Perché molto spesso ci si dimentica che sui giovani bisogna investire sempre, spendere tempo affinché possano diventare cittadini in grado di tirare avanti la baracca quando saranno adulti. Non bisogna credere che investire soldi sui giovani vada fatto solo perché “è giusto farlo” ma anche perché molto banalmente conviene (questo soprattutto è per i fan del “Quanto ci costa?”).

Partiamo da due concetti molto semplici:

Un ragazzo violento è un pericolo per sé e per gli altri, e crescendo continuerà ad esserlo molto di più. Un adulto che da ragazzo è stato abituato a risolvere tutto prendendo a schiaffi (nel migliore dei casi) il prossimo, sarà un adulto che si metterà meno problemi a far del male o a uccidere la compagna nel momento di una rottura. Si porrà meno problemi nel caso in cui voglia o sia costretto a commettere un qualsiasi crimine. E questo ha un costo sociale altissimo.

Una ragazza a cui non è stato spiegato che la sua vita non deve essere “dietro a qualcuno” e non si deve basare sulle apparenze, ma che deve realizzare le sue ambizioni senza farsi dire da nessuno cosa può o non può fare, non avrà lo stimolo per provare a realizzarsi sia umanamente che professionalmente.

Questa cultura che svaluta e incasella le persone ancora prima di raggiungere i blocchi di partenza genera fenomeni come quello della differente retribuzione tra uomo e donna, che rende l'Italia uno tra i Paesi dell’Unione Europea con il salary gap più elevato (se siete curiosi potete trovare i dati qui).

La noncuranza che nel nostro Paese c’è verso le generazioni che da minor tempo si sono affacciate sul pianeta provoca, oltre al disagio immediato, gravi strascichi che si ripercuotono sia sui singoli individui che sulla collettività. Se non si investe ora nella scuola, nella formazione, nello sport e non si cerca di sostenere tutte le associazioni del terzo settore che si impegnano nell’educazione dei ragazzi, come si può pensare che i ragazzi possano crescere in un ambiente che gli dia quantomeno l’opportunità di mettersi in gioco e di migliorarsi come persone? Come si può pretendere che il peso di tutto questo sia addossato sulle famiglie? O su una scuola che fatica a riformarsi e fare passi in avanti?

A questo proposito mi ricordo un detto arabo che diceva: “Chi semina datteri non mangia datteri”. Questo perché il seme del dattero, una volta piantato, a sua volta produce frutti dopo più o meno 100 anni. Il discorso è molto simile anche per investire e spendere risorse nei confronti delle giovani generazioni. Se un ragazzo/a diventa un delinquente, il costo sociale è alto: la società paga il carcere, il futuro rinserimento nella società, progetti per cercare di trovargli un nuovo lavoro una volta uscito di prigione (qui potete trovare un po’ di numeri sul costo in Italia del sistema carcerario). Un ragazzo/a che non studia e che a seguito di questo non trova lavoro, deve reperire il cosiddetto “reddito di inclusione” e va a rinfoltire le file di coloro che usufruiscono dell’aiuto dello Stato (qui trovate i dati dell’Istat al 2019 per quanto riguarda il tasso di disoccupazione in relazione al titolo di studio). Tutte cose, giuste, sacrosante e che devono esserci, ma che hanno un costo al quale molte volte non si pensa.

Questo per far capire che i soldi vengono spesi ugualmente sia che si investa sui giovani sia che non si investa, solo che nel primo caso questo genera possibilità di futuro benessere sociale; mentre nel secondo caso questo genera la certezza di malessere sociale e disagio. Non a caso il piano di sostegno economico per gli stati dell’UE varato dalla Commissione Europea si chiama “Next Generation UE” e non “Recovery Fund” come viene erroneamente chiamato nel nostro Paese. “Next Generation” perché varato nell’ottica di poter aiutare le nuove generazioni ad avere un futuro migliore post pandemia (trovate nel sito della Commissione Europea la descrizione dettagliata).

Mai come in questo momento è necessario investire e guardare al mondo dei giovani non con lo sguardo di chi giudica, ma di chi vuole comprendere e aiutare. Oggi, perché il disagio è già tanto e grave. Lo vediamo nelle nostre strade, nelle nostre case con ragazzi che sono sempre più soli e che non riescono a dare uno scopo alla loro vita per via della situazione di crisi in cui sono nati e cresciuti. I ragazzi vanno innanzitutto ascoltati e coinvolti nelle decisioni; devono essere messi al centro della loro formazione perché solo in questo modo si può ottenere un riscontro positivo e bisogna smettere di parlare dei giovani senza prima ascoltarli e sapere quello che loro vogliono dire, anche se ci può sembrare stupido e senza senso.

Se dopo aver letto questa breve riflessione, la vostra prima reazione è “Eh, ma ai miei tempi io...”, qualunque sia la vostra età, sesso, orientamento religioso, politico e sessuale, fatevi un giro per le strade e smettete di guardare questi ragazzi come un qualcosa che fa da tappezzeria alle nostre vie. Provate a vederci il futuro e qualcosa di utile. Poi tornate a casa. Rileggete l’articolo. E se ancora la vostra reazione è la precedente, mettetevi comodi, continuate a giudicare come sempre e osservate con calma e rassegnazione il declino di un Paese che ha scelto di giudicare e non di fare.

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