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  • Immagine del redattoreAlessandro Manno

Perché in Italia lo sport nazionale è il tiro al bersaglio


Francesco De Gregori la sapeva lunga quando nel testo della sua canzone del 1982 “La leva calcistica della classe ’68” cantava:

“Nino non aver paura

Di sbagliare un calcio di rigore

Non è mica da questi particolari

Che si giudica un giocatore

Un giocatore lo vedi dal coraggio

Dall'altruismo e dalla fantasia”


In questa breve strofa De Gregori è riuscito a fotografare in modo indelebile la sensazione di paura e di sconforto che si crea in tutti gli sportivi che temono di sbagliare nel momento decisivo. Lo sport è sempre stato considerato come una metafora fedele della vita, con un susseguirsi più o meno ordinato di cadute, successi e duro lavoro per poter raggiungere l’obiettivo.

Tuttavia, pur essendo pacifico che gli errori fanno parte della vita e di conseguenza anche della carriera di uno sportivo, nel nostro Paese da quando i gladiatori si sfidavano nelle arene, l’errore non viene mai perdonato, né tantomeno compreso e giustificato.

Questo perché le aspettative di chi segue lo sport nei confronti dei loro beniamini sono talmente alte da vedere l’errore come una specie di tradimento. Le gesta dell’atleta diventano per i tifosi motivo di riscatto (alle volte anche sociale) e ciò porta quasi ad una parziale immedesimazione con esso e con i conseguenti successi e insuccessi. A ciò si aggiunge anche il cosiddetto "fattore invidia" che porta molti appassionati (o presunti tali) a non aspettare altro che l'errore per poter giudicare l'atleta ed ergersi ad esperto della materia o novello Nostradamus a posteriori, immediatamente affetti dalla sindrome del "Io l'ho sempre detto che..." .

Inoltre la stampa sportiva italiana ha la pericolosa tendenza a costruire una narrazione sulle gesta degli atleti, caratterizzata da rapide e irrefrenabili ascese, così come da rovinose cadute.

Questo succede ogniqualvolta un atleta, magari molto giovane, riesce a raggiungere un risultato di grande prestigio. Subito il ragazzo o la ragazza vengono caricati di enormi aspettative e responsabilità, il più delle volte totalmente fuori luogo e che hanno come unico scopo quello di creare una spettacolarizzazione che va oltre l’impresa sportiva in sé.

Questo preambolo era necessario per arrivare a parlare di una questione che mi sta molto a cuore: la giornalisticamente definita “parabola di Fabio Aru”, ma che parabola in fin dei conti non è; e più in generale la corsa al massacro che si scatena contro tutti quegli atleti che vengono emarginati dopo delle prestazioni considerate non all'altezza.

Un po' di storia: Fabio è un ragazzo di soli 18 anni quando, come la maggior parte degli atleti sardi che hanno la sfortuna di vivere in una Terra splendida ma dimenticata dalle istituzioni sportive nazionali, si trova a dover scegliere tra abbandonare il sogno di una carriera da professionista oppure prendere armi e bagagli e lasciare la casa, la famiglia, gli affetti per andare a vivere in Lombardia (per la precisione a Bergamo) ed iniziare quel percorso che lo porterà nel 2014 a salire sul podio al Giro d’Italia e vincere la maglia Bianca di miglior Giovane della corsa Rosa, nel 2015 a vincere la Vuelta à España, nel 2017 a vincere la maglia tricolore e indossare quella Gialla al Tour de France, terminato al 5° posto in classifica.

Stiamo parlando di una carriera di altissimo livello, che pochi atleti nel nostro Paese e a livello mondiale possono vantare. Una carriera, come quella di tutti coloro che scelgono di intraprendere la carriera professionistica, fatta di enormi rinunce.

Chi va in bicicletta e chi segue il ciclismo sa quanti sacrifici devono fare i corridori per arrivare ad un livello di forma ottimale o quanto meno accettabile per poter correre, gli allenamenti infiniti e le uscite in bici lunghe centinaia di kilometri per poter arrivare a mettere la ruota un centimetro prima sulla linea del traguardo.

In pochi anni Fabio diventa il nuovo Coppi, il nuovo Pantani, l’uomo che può dare un futuro all’Italia nelle grandi corse a tappe. Viene osannato e portato in trionfo da tutta l’Italia sportiva, finchè...

Finché, come spesso capita nella vita e nello sport, non vince più. E allora a nulla valgono i sacrifici e le rinunce. A nulla servono le gare in cui ha fatto saltare sulla sedia milioni di appassionati. No, tutto quello non esiste più.

A nessuno interessa più l’uomo Fabio Aru. Ma, diciamocela tutta, a nessuno interessa più neanche l’atleta Fabio Aru. In questi ultimi mesi si è assistito ad uno sciacallaggio vergognoso e ingeneroso per un ragazzo di 30 anni che ha come unica colpa quella di non essere più riuscito a vincere. C’è chi lo accusa di prendere troppi soldi, come se i soldi guadagnati venissero tolti dalla bocca di coloro che lo criticano; c’è chi lo invita a ritirarsi perché ormai un atleta finito. A trent’anni. A soli trent’anni!

Di una cosa sono sicuro: lo sport preferito in Italia è il tiro al bersaglio. Ma non quella gloriosa disciplina che tante medaglie ha regalato ai colori azzurri, quanto la vergognosa gara a chi colpisce in modo più forte e volgare. La gara per chi ha come solo obiettivo quello di sfogare i propri istinti più bassi nei confronti di un altro essere umano.

Gli atleti prima di tutto sono delle persone e spesso lo si dimentica, non tenendo in minimo conto quelli che sono i sentimenti dell’atleta.

Perché in fondo l’importante è solo vendere qualche giornale in più e scrivere l’epitaffio a una carriera per il semplice gusto di ergersi a divinità creatrice e distruttrice. L’essere giudici della vita di un altro anche per un solo giorno o un solo commento sui social.

La parabola di Aru semplicemente non esiste perché gli errori non sono la fine o la discesa di una carriera sportiva, ma soltanto la parte inevitabile di un percorso.

Oggi Fabio si appresta a iniziare una nuova stagione con una nuova squadra, la Qhuebeka Assos, e l’unico augurio che in fondo posso fargli è quello di tornare a fare del suo lavoro un divertimento.

Perché le emozioni regalate nel corso della sua carriera non spariscono. Fabio ha portato in alto il nome della Sardegna nel mondo; ha portato la bandiera dei Quattro Mori sul podio di Madrid, dando dignità ad una terra che spesso dignità non ne ha mai avuta.

Tutti i sardi ti saranno sempre grati per questo e non saranno tre stagioni andate storte a cancellare quanto di bello e di grande hai saputo fare.

Perché i ricordi rimangono, e il pianto di gioia che mi hai saputo strappare nel 2014 al Giro d’Italia con la vittoria in solitaria a Montecampione non sarà dimenticato così facilmente.

Perché alla fine lo sport non significa solo ottenere vittorie; ma innanzitutto saper regalare emozioni.

Anche se tanti alle volte se ne dimenticano.


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