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  • Giulio Ardenghi e Paolo Falqui

Un anno dopo: cosa cercava Putin e cosa ha trovato


In questi decenni più o meno pacifici in Europa forse ci siamo dimenticati che la guerra è parte integrante della Storia umana, espressione per eccellenza delle aspirazioni e degli interessi delle nazioni. L’uomo è ricorso alla guerra per motivi pratici di sopravvivenza, come l’accaparramento di risorse e territori, ma anche, e negli ultimi secoli soprattutto, per motivi simbolici e/o ideologici.

L’invasione russa in Ucraina iniziata un anno fa non fa eccezione e, nonostante l’indubbia importanza strategica dell’Ucraina nello scontro tra NATO e Russia, potremmo iscrivere questa guerra nella categoria di guerra simbolica. Risalire alle motivazioni primarie di una guerra non è mai una cosa facile data la quantità e diversità di fattori che vengono messi in gioco, tuttavia ci sono delle caratteristiche ricorrenti che fanno del ricorso all’aggressione militare una soluzione vantaggiosa per un leader, incluso al di là del campo di battaglia.


La stessa Seconda Guerra Mondiale, o le guerre in Iraq e Afghanistan più recentemente, sono state spinte da una forte opera di propaganda, intenta da una parte a legittimare la nazione attraverso l’imposizione del proprio dominio sulle altre, e dall’altra a incanalare la rabbia di una opinione pubblica ferita da precedenti accadimenti. Possiamo osservare molte similitudini con il caso attuale: l’offensiva russa arriva dopo anni di crisi economica, aggravata dagli effetti della pandemia del Covid-19 che avrebbe potuto destabilizzare la leadership autoritaria di Putin, nonché la posizione della Russia nello scacchiere internazionale, tra Stati Uniti e Cina.


Lo strumento della guerra risultava un anno fa dunque incluso logico, vista anche la situazione pregressa in Crimea e nel Donbass, per poter recuperare sia la stabilità interna che lo status internazionale; una vera e propria dimostrazione di forza, alla ricerca di un consolidamento del potere personale e nazionale. Il potere, in fondo, è sempre stato il motivo profondo di qualunque guerra: da Giulio Cesare che conquista la Gallia a Napoleone, fino ai nazionalismi del '900, potere personale e potere nazionale si sono incrociati quando si sono verificate situazioni nelle quali un leader si è imposto come guida di un popolo, quello che Weber chiamava leader carismatico, e nella maggior parte dei casi sono coincisi con la necessità di imporre il proprio potere attraverso l’uso delle armi.


Ma perché la guerra accresce il potere di un leader? Il marketing che accompagna una campagna militare fa riferimento comunemente a tre grandi fattori sociali, che contribuiscono a cementare la posizione di chi la promuove perlomeno finché essa non risulta eccessivamente gravosa per la società civile: l’espressione della grandezza della nazione, l’individuazione di un nemico comune che possa compattare una società divisa e il rafforzamento della fede nel leader.


La macchina propagandistica di Vladimir Putin ha fatto molta leva sul ritorno alla grandezza della Russia e sulla sua consolidazione come potenza mondiale, con un racconto che somiglia ideologicamente al “Make America Great Again” di Trumpiana memoria (e che in quel caso andava a giustificare, per esempio, il muro con il Messico); sempre a livello di narrazione ideologica, è importante l’uso strumentale della presenza delle popolazioni russofone in Ucraina, che legittimerebbe cosi l’espansione russa: in sostanza promuove il fatto che la Federazione Russa dovrebbe essere più grande di ciò che è oggi, alimentando il nazionalismo e il risentimento per le divisioni territoriali operate dall’URSS prima e dalle varie repubbliche post-sovietiche poi. Le somiglianze con i nazionalismi nati tra le due Guerre Mondiali sono innumerevoli ed evidenti, se avessimo ancora bisogno di conferme sulla ciclicità della Storia.


L’Ucraina, dipinta dalla propaganda russa come nazista e come Paese oppressore, in particolare verso la minoranza russa, diventa così il nemico esterno, comune a tutto il popolo russo, permettendo, nei piani del governo, di compattare una società che aveva dato nel tempo alcuni segnali di insofferenza alla costante limitazione delle proprie libertà. L’unità (di pensiero, di intenti) è un obiettivo centrale in un sistema politico fortemente personalizzato e verticale, non a caso fondamento della struttura dei totalitarismi del Novecento, in quanto permette al leader di “impersonare” la volontà della nazione, ottenendo una legittimazione e un potere smisurati, da usare come moneta di scambio nelle relazioni internazionali.


Eppure c’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione, che rende la visione russa dell’Ucraina più complicata. Il fatto, cioè, che i russi tendano a considerare gli ucraini come veri e propri fratelli di sangue. Non è un caso che, già da molto prima di questo conflitto, le relazioni tra questi due Paesi siano state viste come rapporti tra Grande Russia e Piccola Russia. Per questo, è comprensibile che, per gran parte del conflitto, i portavoce e i sostenitori del Cremlino abbiano evitato con tutte le loro forze di usare la parola “guerra”. La Russia non è in guerra con l’Ucraina, dicevano, ma sta solo portando avanti una operazione militare speciale per proteggere la minoranza russofona nel sud-est del Paese e, più generalmente, per liberare la nazione dal giogo ideologico occidentale che la sta manovrando.

Nulla esemplifica questo discorso meglio delle parole del filosofo Alexander Dugin, secondo cui: "La Russia non è in guerra con l’Ucraina, sta cacciando il diavolo via dall’Ucraina. Questo è un esorcismo geopolitico." [1]


A quest’ultimo aspetto si collega infine il rinforzo della fede nel leader, necessaria per Putin per continuare il suo controllo ventennale sulle istituzioni e la società russe. Ciò di cui ha bisogno un leader così autoritario è una fede cieca nel suo giudizio, e non una fiducia che democraticamente si esprime con il voto e il parlamento; fede e fiducia possono sembrare a un primo esame due concetti simili, in realtà la fiducia è condizionata dalle reali azioni del depositario di essa, mentre la fede è incondizionata e legata più alle caratteristiche personali del leader che alle sue idee o azioni. In questo, la guerra consente a Putin di accentrare ancora di più il potere su sé stesso, giustificato dall’urgenza decisionale richiesta dallo stato bellico, e di ricercare quell’appoggio incondizionato che è in fondo il più grande obiettivo di tutti i leader totalitari.

L’invasione dell’Ucraina diventa così un mezzo di propaganda, sia verso la società russa, di cui Putin ha bisogno per rimanere al potere, sia verso il quadro internazionale, intimidito dalla potenza dispiegata e dispiegabile della Federazione Russa.


Eppure, dal punto di vista puramente strategico, ci sarebbero senz’altro state strategie di propaganda migliori che il Cremlino poteva escogitare. Quanto è salita, nel Medio Oriente, la fiducia verso Russia dopo che tutti i siriani hanno visto con quanta efficienza le divisioni della Federazione assestavano colpi mortali ai loro persecutori dell’ISIS? A tutte le persone che vedevano negli Stati Uniti una forza violenta e imperialista ma non volevano prestare sostegno al terrorismo islamico era stata offerta una terza via. Quella sì che è stata un’ottima mossa per accrescere il proprio consenso al di fuori dei confini nazionali.

Ma l’invasione dell’Ucraina è un affare diverso. Ha ragione chi dice che Putin ha avuto successo dove decenni di diplomazia atlantista hanno fallito. Da un lato, l’imponente macchina militare russa fa paura quando si muove alle porte d’Europa, e i Paesi occidentali hanno avuto un’ottima ragione per far fronte comune davanti a questa minaccia (per esempio con la proposta di adesione di Svezia e Finlandia alla NATO, anche se il Presidente turco Erdogan aveva idee ben diverse). Dall’altro lato, le difficoltà che i russi stanno incontrando ad avere la meglio su un avversario sulla carta più debole come l’Ucraina hanno portato molti a concludere che le forze armate del Cremlino siano state sopravvalutate, e che la Russia non abbia più il diritto di considerarsi una superpotenza militare.


Anche nel discorso pubblico Occidentale questa guerra ha sciolto parecchie inibizioni. Nemmeno chi si identifica con ideologie più progressiste sente più il bisogno di giustificarsi quando esprime idee in linea con la politica estera degli Stati Uniti. Ma questa guerra è anche di valori, e lo scontro militare porta molti sia in Russia che in Occidente a pensare di dover scegliere una parte da cui stare: se con l’Occidente liberale e amante dei diritti civili o con la Russia saldamente ancorata ai vecchi valori. Un quadro a cui si aggiunge il dibattito sull’anno dell’inizio della guerra, che alcuni considerano il 2022 ed altri il 2014, ovvero l’anno della caduta del presidente ucraino filorusso Yanukovich e l’avvento di una serie di governi decisamente più ostili al grande vicino e fortemente favorevoli all’avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente. Questo sarebbe quindi il nono, non il primo anniversario dallo scoppio del conflitto.

L'impressione su questo punto, come per altri, è però che l’intervento russo abbia cambiato completamente le carte in tavola. La speranza è comunque quella che tra un anno potremo parlare della guerra tra Russia e Ucraina solo al passato.


Fonte:

[1] Messaggio del 06 settembre 2022 sul canale Telegram di Dugin: t.me/Dugin_Aleksandr


Fonte immagine di copertina: The Hill


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