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  • Victoria Atzori e Marco Fanari

25 novembre: tra storie di violenza e tutele per la vittima


“Era il 15 agosto e davano una festa in spiaggia con tanto di chitarra e falò. Io indossavo il mio solito costume da bagno: un due pezzi rosa ricamato a uncinetto. ‘Non ti permettere più di farti vedere dai miei amici con questo costume!’. Pensavo che le parole di Marco fossero dette per amore. Mi sbagliavo. E da quel momento schiaffi, calci, pugni, almeno una volta alla settimana…. Non avevo il coraggio di lasciarlo: è stato il mio primo amore, se tale si può definire”. [1]

Questa è una piccolissima parte di ciò che Sveva, 26 anni, ha vissuto quando a soli diciassette ha conosciuto un uomo violento. Purtroppo, tantissime altre ragazze hanno vissuto la sua esperienza: perché la violenza, fisica e psicologica, segna ancora la vita di tantissime donne.


Infatti, i dati Istat purtroppo non stupiscono: secondo l’istituto, in Italia circa il 31,5% delle donne ha subito violenza fisica o sessuale. Nel solo 2019 sono state uccise 111 donne [2], una situazione peggiorata con il passare del tempo.

Infatti nel 2020, con l’arrivo della pandemia, la situazione non è migliorata; le famiglie sono state costrette a trascorrere più tempo assieme e questo ha determinato un aumento dei rischi di violenza. Si pensi che nel 2020 il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking (1522) ha ricevuto il 79,5% di chiamate in più rispetto all’anno precedente. Tuttavia, dopo aver contattato il 1522 solo 695 donne hanno deciso di denunciare, le restanti o hanno denunciato e ritirato l’accusa in un secondo momento o hanno deciso direttamente di non rivolgersi alle autorità. [3]


Il quadro giuridico

Sono tantissimi i motivi che inducono le donne vittime di violenza a non denunciare e non si deve sottacere che molto spesso tali motivi sono legati sia al contesto ambientale e culturale nel quale vivono sia alla mancata promozione e conseguente conoscenza delle strutture adibite alla loro protezione. In aggiunta, non di rado la violenza subita arriva da una persona con la quale si è legati affettivamente. Spesso, in questo caso, si tende a giustificare il partner e a ritenere che la violenza subita non era “così tanto grave” o, talvolta, si ha paura perfino di sporre denuncia per paura che il violento possa “vendicarsi”. A ciò si aggiunga anche che molto spesso gli stessi familiari non credendo alla vittima non le danno il sostegno del quale ha bisogno. [4]


La violenza di genere, come sancito dalla Convenzione di Istanbul, può verificarsi in quattro forme: fisica, psicologica, economica e sessuale. La violenza fisica può identificarsi con i maltrattamenti che si consumano generalmente all’interno delle mura domestiche. Quella psicologica, invece, è più subdola e infida della prima, difficilmente visibile agli occhi di una persona esterna e non di rado precede lo sfociare del maltrattamento fisico, avendo lo scopo di demolire emotivamente la vittima e renderla maggiormente manipolabile. La violenza economica comprende tutti quegli atti che impediscono alla donna di utilizzare liberamente le risorse economiche; in linea di massima questa forma è più probabile che si verifichi quando la donna è in una posizione di dipendenza economica rispetto al “partner”. Rimane, infine, la violenza sessuale che è la più grave fra tutte quelle già citate e provoca delle ferite indelebili, non solo fisiche, sulla vittima.

Quali sono però gli strumenti a disposizione della vittima? Senza ombra di dubbio sono un presidio essenziale i centri antiviolenza, strutture in cui le vittime di maltrattamento possono trovare un rifugio e un sostegno psicologico. In particolare, quest’ultimo aspetto è imprescindibile per una successiva denuncia, in quanto non è infrequente che la vittima abbia una vera propria paura del proprio aggressore. Il percorso che conduce alla cosiddetta “presa di coscienza” è assai difficoltoso e proprio per questa ragione all’interno dei centri è presente un personale altamente specializzato, che si occupa di monitorare e sostenere la donna.


A questo punto è congeniale soffermarsi su un aspetto – talvolta poco discusso – che riguarda la rieducazione dell’uomo maltrattante. Difatti, se si vuole arginare l’imperante fenomeno della violenza di genere è imprescindibile che le vessazioni siano bloccate in breve tempo, ossia già dal momento psicologico; in altri termini è necessario cambiare il modo di pensare del singolo. Non è certo un obiettivo semplice, ma l’inizio di questo processo può essere individuato in una svolta del paradigma culturale, incominciando a insegnare già nella fase della istruzione scolastica il principio del rispetto reciproco. È fuor di dubbio che purtroppo, anche a causa dei modelli mutuati dal web, oggi siamo costellati da esempi nei quali ha una rilevanza centrale la sopraffazione dell’altro per finalità di profitto personale (nella accezione più ampia del termine). Per questa ragione si deve riportare al centro l’idea che il rispetto all’interno della comunità è l’unica soluzione per far sì che tutti gli individui riescano a vivere senza la paura di essere vittime di violenza.


Oltre la fase di prevenzione, bisogna anche volgere lo sguardo rispetto alla fase rieducativa in senso stretto, ossia quella successiva al momento in cui si è verificato l’episodio deviante. Senza soffermarsi troppo sulle statistiche, è indicativo che circa “otto uomini su dieci” [5] siano recidivi nel maltrattamento nei confronti della donna. È lapalissiano, in quest’ottica, che servano degli specifici percorsi per la rieducazione dell’uomo, in modo tale che non continui a compiere degli atti violenti. Anche il nostro Legislatore ha fatto propria questa necessità, tant’è vero che ha introdotto – con la riforma del 2019 dell’art. 165 c.p. – la possibilità di sospendere, nelle ipotesi tipizzate ex lege, la pena dei condannati al delitto di violenza sessuale, a condizione che partecipino “a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupino di prevenzione, assistenza psicologica” e, più in generale, del loro recupero. Questo indirizzo, già messo in evidenza dalla Convenzione di Istanbul, dimostra che è imprescindibile la predisposizione di strutture che si occupino della rieducazione psicologica del soggetto maltrattante, giacché in caso contrario si rischia che lo stesso non si renda conto del proprio errore e lo reiteri.


Dal reddito di libertà alla lotta di tutti

Sempre rimanendo sul fronte legislativo, è necessario sottolineare che in Italia è stato recentemente introdotto il cosiddetto “reddito di libertà”, al quale possono accedere anche le donne vittime di violenza. Si tratta di una misura, come è intuibile dalla sua stessa denominazione, finalizzata al contrasto della violenza economica. Se da un punto di vista ideale l’iniziativa è lodevole, da un punto di vista concreto è pressoché irrisoria, in quanto i 400 euro mensili erogati dall’Inps non sono certo una cifra congrua per sostenere i costi di vita di una persona. In quest’ottica sarebbe auspicabile, in via alternativa, o l’aumento del valore dell’assegno o la predisposizione di canali preferenziali che riescano a far introdurre la vittima all’interno del mondo del lavoro. [6]


A quanto detto finora, si deve porre in evidenza che, purtroppo, non tutte le donne sono riuscite a sopravvivere alle violenze subite. Qualche mese fa, sempre su Toc Toc Sardegna, è stata raccontata la storia di Sarah Everard, ragazza inglese brutalmente uccisa lo scorso tre marzo mentre rientrava a casa dopo aver cenato con gli amici. Non a caso si è scelto come titolo dell’articolo “Sarah Everard: una realtà non troppo lontana dai nostri occhi”, proprio per andare a rimarcare quanto questo episodio avvenuto a migliaia di chilometri da noi rifletta una realtà inequivocabile che accomuna tutti noi. [7]


La violenza di genere è un fenomeno che riguarda tutta la comunità globale e, dal 1999, il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un momento di essenziale importanza in cui si esortano tutti i Paesi a sensibilizzare i propri cittadini su questo tema. [8] Storie come quella di Sveva e di Sarah Everard se ne sentono tutti i giorni ed è importante parlarne per provare a costruire una società più consapevole, nella quale ogni singolo componente sia – come ben sottolineato in un recente convegno dal dott. Gustavo Cioppa [9] – “sentinella della legalità”; in altre parole significa che ognuno di noi deve porre particolare attenzione rispetto a ciò che ci accade intorno, non girando la faccia dall’altra parte, ma prodigandosi a fornire un aiuto concreto a tutte le donne vittime di violenza.


Fonti: [1] Alessandra Federico, Viaggio all’interno dell’incubo: intervista a una ragazza vittima di violenza, sociologicamente, 21 marzo 2019, https://sociologicamente.it/viaggio-allinterno-dellincubo-intervista-a-una-ragazza-vittima-di-violenza/

[2] Ministero della salute, Salute donna, 18 maggio 2021,

[3] Cristina da Rold, Perché la violenza non viene denunciata? Cinque dati per rispondere davvero, Il Sole24ore, 28 agosto 2020,

[4] Jasmine Mazzarello, Perché le donne vittime di violenza non denunciano? (E perché dobbiamo smettere di pretenderlo), Bossy, 29 novembre 2019, https://www.bossy.it/perche-le-donne-vittime-violenza-non-denunciano.html

[5] G. Serughetti, Smettere si può. Centri per uomini maltrattanti, ingenere.it, 20 novembre 2014, https://www.ingenere.it/articoli/smettere-si-puo-centri-uomini-maltrattanti

[6] La riflessione è ripresa da J. Guerra, Il Reddito di libertà per le vittime di violenza è una buona notizia. Per 625 donne su 50mila, THE VISION, 16 novembre 2021, https://thevision.com/attualita/reddito-liberta/

[7] Victoria Atzori, Sarah Everard: una realtà non troppo lontana dai nostri occhi, TocToc Sardegna, 26 marzo 2021,

[8] Silvia Morosi, Giornata contro la violenza sulle donne: perché si celebra il 25 novembre, Corriere, 24 novembre 2020,

[9] Festival Stanze di Psiche “Pane e Respiro”, Basilica di San Celso, 11 novembre 2021, Milano

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