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  • Chiara Floris

L’Italia cambia rotta: l'addio alla Belt and Road Initiative





Con una nota consegnata dalla Farnesina a Pechino all’inizio di dicembre, l’Italia ha salutato definitivamente la Nuova Via della Seta, rompendo ufficialmente l’accordo siglato con il Dragone attraverso la firma del Memorandum of Understanding (2019) e affermando di non voler rinnovare l’intesa.


Cosa è la Nuova Via della Seta?


Roma, marzo 2019. Con la firma del Memorandum of Understanding (MoU), l’Italia entra formalmente nel registro dei partner della Repubblica Popolare Cinese nel suo colossale progetto della Belt and Road Initiative (ricordato come la “Nuova Via della Seta”).


La Belt and Road Initiative (一带一路 yīdài yīlù) è un programma infrastrutturale, avviato dalla RPC nel 2013, che si propone di collegare Asia, Africa ed Europa tramite la messa a punto di reti terrestri e marittime finalizzate a stimolare lo sviluppo e l’integrazione regionali e ad incentivare i commerci globali.


Il nome del progetto è stato coniato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013 in ricordo della Via della Seta, la grandiosa opera della dinastia Han che per secoli ha collegato la Cina al Mediterraneo attraverso la regione eurasiatica.

Per immaginare come la BRI si dispieghi sul planisfero, è necessario individuare prima la Cintura economica della Via della Seta - un passaggio transcontinentale che collega la RPC via terra con il sud-est asiatico, l’Asia meridionale, l’Asia centrale, la Russia e l’Europa -, e poi la Via della Seta marittima del 21° secolo, una rotta che collega le coste cinesi con il sud-est asiatico, l'Asia meridionale, il Pacifico meridionale, il Medio Oriente e l'Africa orientale, fino a toccare infine l'Europa.

L’iniziativa del Dragone porta in sé cinque priorità-obiettivi: coordinamento delle politiche pubbliche, connettività delle infrastrutture, commercio agevole e senza ostacoli, integrazione finanziaria e connessione interpersonale. [1]


Per quanto riguarda il suo funzionamento, i paesi interessati a partecipare alla BRI vi aderiscono firmando un memorandum d’intesa con la Cina (proprio come l’Italia ha fatto nel 2019), che il governo cinese riporta poi sul portale ufficiale del progetto.

Fatta eccezione per l’Italia, appena tiratasi indietro dall’accordo, i paesi partner sono a oggi 153. L'iniziativa, cuore pulsante della politica estera di Xi, è stata incorporata per il suo ruolo cruciale nella Costituzione del Partito Comunista Cinese nel 2017, diventando a tutti gli effetti uno dei punti nevralgici della strategia del Partito per realizzare il Sogno cinese. [2]


Perché un cambio di rotta così repentino?


Firmando il MoU, oramai cinque anni fa, l’Italia è stata al contempo pioniera e ritardatrice nell’entrare nella BRI: se da una parte è stata il primo (e unico) paese del G7 a siglare un accordo con il Dragone – spiazzando Unione Europea e Stati Uniti - allo stesso tempo è stata il 121° Paese ad averne firmato uno.


La firma italiana, al tempo, è avvenuta in concomitanza di un momento di slancio verso la BRI da parte dei paesi “meridionali” dell’UE (la Grecia aderisce nell’agosto 2018, il Portogallo nel dicembre 2018 e Cipro nell’aprile 2019). Con la scadenza del memorandum fissata a marzo 2024, però, questo entusiasmo sembra essersi spento del tutto e l’Italia pare essere risoluta nel non voler rinnovare l’accordo. Le motivazioni di questa decisione sono da ricercarsi nelle aspettative che l’Italia aveva riposto nel progetto e che, a detta dell’attuale Governo, non sono state soddisfatte.


Tra le principali ragioni che avevano motivato la firma del MoU nel 2019, Roma aveva sottolineato l'importanza di intensificare e migliorare gli scambi commerciali e culturali tra i due Paesi, auspicando un reciproco beneficio. In effetti, tra il 2019 e oggi, l'interscambio tra Pechino e Roma è cresciuto da 50 a 84 miliardi di dollari.


Ciononostante, in termini di investimenti e di bilancia commerciale, l’intesa non ha prodotto i benefit attesi. Anzi: nel 2022, il deficit commerciale dell'Italia nei confronti della Cina ha raggiunto un record storico di -47 miliardi di dollari. Sul versante degli scambi culturali poi, il memorandum non ha avuto conseguenze positive. A peggiorare la situazione è stata poi la pandemia nel 2020, che ha drasticamente ridotto le collaborazioni accademiche tra Italia e RPC. Nonostante la fine delle restrizioni, ad oggi tali collaborazioni continuano ad essere piuttosto congelate.


I vantaggi economici concreti risultanti dal memorandum si presentano, a conti fatti, unicamente a favore della RPC. Se le esportazioni italiane in questi ultimi cinque anni sono cresciute di soli 4 miliardi di dollari (da 14,5 a 18,6), quelle cinesi sono quasi duplicate, crescendo da 35 a 66 miliardi di dollari.

Il governo italiano sperava, inoltre, che con la firma del memorandum gli investimenti cinesi nel nostro Paese si sarebbero espansi. Malgrado i propositi e le aspettative, un quinquennio dopo non sono stati riscontrati risultati tangibili. Anzi, secondo i dati forniti dall'Heritage Foundation, il culmine degli investimenti esteri cinesi in Italia è stato raggiunto nel 2015, ben quattro anni prima della firma del MoU.


Questo trend ha dunque sollevato dei punti di domanda sull’effettiva equità della partnership, che si inseriscono d’altronde nel più ampio contesto del meccanismo di screening europeo degli investimenti esteri in entrata (durante il mandato di Mario Draghi, per citare alcuni esempi, l’Italia ha esercitato il suo potere di veto in quattro casi, relativamente ai settori strategici dei semiconduttori, della produzione di droni e dei sementi).

Il motivo dietro la decisione non solo dell'Italia, ma di tutta l’UE, di rivalutare la partnership con Pechino è da ricercarsi a livello del problema della dipendenza strategica, considerato soprattutto il ruolo predominante di Pechino nella produzione di tecnologie avanzate funzionali alla transizione verde (questo ripensamento è stato evidenziato nel marzo 2023 con la presentazione del Critical Raw Materials Act e del Net Zero Industry Act in seno all’UE)


In ogni caso, risulta difficile concepire una conclusione differente dalla decisione dell'Italia di interrompere il MoU. Le dinamiche tra la RPC e l'Unione Europea, così come le relazioni tra il Paese di mezzo e il resto della comunità internazionale, hanno subito notevoli trasformazioni dal 2019 a oggi. Trasformazione particolarmente evidente in considerazione di eventi come l'invasione russa dell'Ucraina, che ha messo in luce tutti i rischi associati a una eccessiva dipendenza da un paese più potente e caratterizzato da un sistema valoriale distante da quello occidentale. [3]


Quali sono le prospettive future?


Nonostante il governo italiano abbia ribadito più volte la sua volontà di rafforzare la collaborazione bilaterale con la RPC, seppur utilizzando canali differenti rispetto a quello della BRI, bisognerà capire più avanti come il Dragone reagirà in termini effettivi all’uscita di Roma dall’iniziativa, considerati anche i recenti dialoghi UE-Pechino e gli sviluppi geopolitici che riserverà lo scenario internazionale.



Fonti

[1] Belt and Road Portal. (s.d.) What is the BRI?, Belt and Road Portal 中国一带一路网


[2] Redazione, Italia fuori dalla Via della Seta cinese: un bilancio in 5 grafici, ISPI - Istituto per gli studi di politica internazionale, 6 dicembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/italia-fuori-dalla-via-della-seta-cinese-un-bilancio-in-5-grafici-155935#:~:text=Tre%20giorni%20fa%2C%20l'Italia,naturale%20scadenza%20a%20marzo%202024.


[3] Xinhua, "Belt and Road" incorporated into CPC Constitution, 24 ottobre 2017, XINHUANET.com: http://www.xinhuanet.com/english/2017-10/24/c_136702025.htm





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