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  • Francesco Ortu

Per un pugno di dollari: il salario minimo alla prova parlamentare


Il salario minimo è tornato, nuovamente, al centro del dibattito inaugurando quello che è un ulteriore episodio dell'ormai annosa querelle esistente fra capitale e lavoro.

Nelle scorse settimane, il Transatlantico ha visto aggirarsi nuovamente tale spettro sospinto con tenacia da pressoché tutte le opposizioni unite, eccezion fatta per Italia Viva. Per inquadrare però al meglio il contesto in cui tale dibattito ha preso forma è opportuno considerare quelli che sono gli elementi strutturali radicati nel sistema economico-sociale italiano, i quali determinano e connotano la problematica salariale.


Iniziamo, dunque, con un semplice ma eloquente dato: prendendo in considerazione i dati relativi ai salari medi annui offertici da Openpolis tra il 1990 e il 2020, e ponendo come anno base il 1990, osserviamo come all’interno dell’UE non solo l’Italia non ha visto incrementi retributivi, ma ha registrato addirittura un decremento, conquistando una indesiderata maglia nera. [1] Sarebbe dunque opportuno comprendere quali siano le forze propulsive che hanno portato a tale performance. Le risposte sono varie: alcuni attribuiscono le colpe alla scarsa produttività delle imprese italiane, soprattutto quelle di piccole dimensioni, poco propense all’investimento, oppure ancora rintracciabile in un costo del lavoro mantenuto basso per evitare il pericolo di delocalizzazione. Entrambi sono ovviamente elementi valutativi corretti, ma si escluderebbe un elemento atavico di grande importanza: la struttura imprenditoriale.


Prendendo in considerazione i dati dell’ISTAT sugli occupati per branca di attività economica, ed elaborandoli rapidamente, osserviamo come il 73% di questi, al primo trimestre del 2023, sia concentrato nel settore terziario. Che implicazioni ha ciò dal punto di vista salariale? Per fare questo facciamo qualche precisazione: il terziario si divide in terziario avanzato e tradizionale, con questi due che condividono unicamente la bassa capacità occupazionale. Per comodità ci concentriamo sul tradizionale, in virtù della maggiore diffusione e pervasività sul suolo nazionale. Questo è infatti caratterizzato da una bassa occupazione per:

· Un volume di affari e redditività ridotta;

· La possibilità, in virtù dell’alta offerta di lavoro a bassa qualificazione e la flessibilità in uscita del lavoro, di poter ricorrere ad un potere di ricatto occupazionale.


In virtù proprio di questo si configura il meccanismo dell’“esercito industriale di riserva” di Marx secondo cui, per via della sterminata platea di individui pronto a sostituirlo, il lavoratore può subire condizioni occupazionali molto più gravose, fra cui si inserisce una compressione salariale rappresentata dal cosiddetto “dumping”. A ciò fa seguito la condizione sempre più persistente e gravosa dei working poors, i quali, nonostante siano lavoratori, si trovano in una condizione di svantaggio economico.


Da tale contesto, quindi da queste necessità, nasce la questione del salario minimo, che ha ripreso linfa vitale grazie ai due DDL presentati dai deputati M5S e PD, Catalfo e Laus.

La proposta della pentastellata evidenzia come la retribuzione minima oraria non possa essere inferiore alla cifra stabilita dalla CCNL e, in ogni caso, la stessa non deve andare sotto il minimo di 9€/h lordi, che in caso di mancanza ci si riferisca alla contrattazione collettiva del settore e della zona non scendendo anche in questo caso sotto il limite, che i CCNL devono essere tassativamente riferibili alle associazioni datoriali più rappresentative e, infine, che gli importi debbano essere adeguati annualmente all’indice dei prezzi al consumo armonizzato al netto del valore energetico dell’anno precedente, in accordo con i dati IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato, ndr).


La proposta del Senatore PD non si discosta particolarmente, se non per dettagli come il salario di 9€/h netti, la sua estensione a qualsiasi rapporto di lavoro, il riferimento agli indicatori ISTAT per quanto l’indicizzazione annuale per i costi al consumo, dunque la determinazione per decreto ministeriale dei settori escludibili, nonché le modalità d’incremento dei salari superiori al minimo.

In ogni caso notiamo abbastanza facilmente come tali proposte, in accordo con la Direttiva Comunitaria 2022/2041 che fa da traino a queste iniziative parlamentari, mettono al centro la CCNL ovvero la Contrattazione Collettiva Nazionale del Lavoro. In maniera didascalica questa rappresenta gli accordi intrapresi a livello nazionale fra associazioni datoriali e sindacali in merito a determinati settori in cui vengono stabilite, fra le altre cose, le tabelle salariali minime per ogni inquadramento occupazionale. Tale questione rappresenta un poco il pomo della discordia, ed è la principale retorica governativa per contro questa politica sociale.


Secondo le forze d’area meloniana, forzista e leghista questa iniziativa non sarebbe necessaria, in quanto è presente proprio tale tipo di politica concertativa. Apriamo in tal senso un inciso relativo ai punti deboli della contrattazione collettiva (CCNL), che riassumiamo in vari punti:

  • I salari minimi spesso non rispecchiano in maniera adeguata il costo reale della vita;

  • Sono facilmente bypassabili, basti pensare i contratti pirata che consentono di firmare accordi paralleli con sindacati poco rappresentativi che consentono di creare una “contrattazione parallela” favorevole, in virtù di rapporti di forza o connivenza, all’impresa;

  • Proprio per via di tale connivenza, o in condizione di ricatto occupazionale, appare non di rado la diversità di inquadramento nel contratto rispetto all’attività effettivamente svolta, per poter operare una compressione salariale;

  • Vari settori particolarmente diffusi, come quello dei lavoratori stagionali che costituiscono un’importante fetta dell’occupazione italiana, non sono coperti da CCNL.

Possiamo facilmente vedere come le critiche governative siano con molta probabilità dettate da ragioni sia ideologiche che elettorali, derivanti dalla tutela di interessi personali e dell’elettorato di riferimento.


Questa risulta essere però solo una delle critiche mosse dagli ambienti liberaldemocratici. Il focus di questi poggia sul fatto che, con un aumento del salario minimo, si avrebbe una inondazione di lavoratori che passerebbero dall’emerso al sommerso e, in forza di questo, sarebbe necessario fare ricorso a incentivi fiscali alle imprese e, prendendo dal contesto tedesco, una esenzione rispetto al salario minimo per alcuni territori.

Tale condizione, tuttavia, si manifesta già tuttora, indipendentemente dalla presenza di un vincolo salariale imposto per via legislativa, configurando anzi un problema endemico da correggere alla base, diventando dunque una argomentazione non particolarmente solida per impedire un adeguamento agli standard del costo della vita e all’orientamento comunitario.


Per quanto riguarda il perseguire il modello tedesco, parliamo di una realtà e un tessuto imprenditoriale particolarmente diverso da quello italiano, anzi completamente decontestualizzato. La realtà nostrana si presenta molto meno redditizia e atomizzata rispetto a quella tedesca, e la diversificazione settoriale porterebbe a forti cortocircuiti e ad un pericoloso dualismo, soprattutto territoriale. Basti pensare come la penisola sia spaccata perfettamente in due, inquadrando una realtà industriale nel Centro Nord e una desertificazione nel Mezzogiorno. Al di là di questi contraccolpi, un’operazione di medio-lungo periodo mal risponderebbe all’esigenza immediata di rispondere ad una stagnazione retributiva in un contesto di crisi ed inflazione, con il potere d’acquisto sempre più risicato.


In conclusione, possiamo vedere come il salario minimo costituisca un elemento molto importante per il rientro dei diritti sociali nell’agenda pubblica dell’Italia. Ciò costituisce un elemento importante ma non assolutamente sufficiente per ovviare alle spinose sfide che l’arena del lavoro offre. Nonostante ciò questo può rappresentare un primo, e timido, passo verso la costruzione di una infrastruttura occupazionale che restituisca qualità e dignità alla figura del lavoratore, affrontando i problemi dell’oggi e imbastendo la strada per le battaglie del domani.

Fonte: [1] L’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990, Openpolis, 24 aprile 2023, https://www.openpolis.it/numeri


Fonte immagine copertina: La voce del popolo

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