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  • Immagine del redattoreRoberta Cancellieri

Ucraina | Le ferite invisibili della guerra


C’è chi dice che in guerra la verità è la prima vittima, chi ci narra un’epica battaglia tra i buoni e i cattivi. Ma in una guerra nessuno può dirsi pienamente buono ed innocente e l’unica vera vittima, in fin dei conti, è la popolazione civile che può in certi casi solo subire le decisioni dei “poteri forti”.


Lo sanno bene gli operatori di Soleterre, una Fondazione Onlus nata a Milano che lavora per il riconoscimento e l’applicazione del Diritto alla Salute nel suo significato più ampio e che è attiva in Ucraina da più di 19 anni. Nel Paese, Soleterre porta avanti il suo programma Grande Contro il Cancro che supporta piccoli pazienti oncologici e le loro famiglie, in partnership con l’Istituto Nazionale del Cancro e con l’Istituto Nazionale di Neurochirurgia.


In occasione dell’anniversario dell’invasione dell’Ucraina, i media hanno nuovamente acceso i riflettori sulle vicende di questo Paese così vicino ma allo stesso tempo così lontano da noi. Ne abbiamo approfittato per intervistare Gioele Scavuzzo, Rappresentante Paese - Polonia e Responsabile Regionale Polonia e Ucraina per conto di Soleterre, che ha accettato di raccontarci la quotidianità di milioni di persone costrette a fare tutti i giorni i conti con traumi, ferite e una nuova “normalità”.

La prima rottura dell’equilibrio della vita dei bambini ricoverati in oncologia pediatrica e delle operazioni di Soleterre in Ucraina è stata l’evacuazione sanitaria d’urgenza di tutti i pazienti assistiti dalla Fondazione. “Di solito Soleterre opera portando il supporto nel Paese dove c’è un bisogno specifico che viene affrontato cercando di migliorare la qualità di vita” ci racconta Gioele “In questo caso invece la scelta migliore era portarli via da un posto in cui non stavano al sicuro”. Grazie a voli privati prima e a quelli del Meccanismo di Protezione Civile dell’UE poi, e al supporto della Fondazione ucraina Zaporuka, circa 200 bambini sono stati trasportati dai reparti oncologici di Kyiv e Lviv all’Italia insieme alle loro famiglie per poter continuare le cure di cui hanno bisogno.


Nei mesi successivi allo scoppio della guerra milioni di persone sono fuggite dall’Ucraina rifugiandosi in vari Paesi europei, ma soprattutto in Polonia che ospita il numero più alto di rifugiati ucraini, circa 1 milione e 600 mila. “La maggior parte dei rifugiati vengono da piccoli centri cittadini o da paesini da cui non sono mai usciti, prima dello scoppio della guerra. Per motivi culturali e linguistici è difficile per loro vivere al di fuori del loro Paese. […] Stare in Polonia gli dà la certezza e la tranquillità di poter entrare e uscire facilmente dall’Ucraina, di poter andare a trovare la famiglia e poi tornare in un Paese considerato sicuro”. In Polonia lo staff di Soleterre comprende sette psicologhe ucraine, anche loro rifugiate. Continuano a fare il loro lavoro, supportando i propri connazionali, e dunque indirettamente il proprio Paese, nel processo di elaborazione delle ferite che la guerra sta lasciando.


Al momento i beneficiari delle attività di supporto alla salute mentale sono circa 3600; molti vogliono rimanere in Polonia o nei Paesi ospitanti perché si stanno creando una nuova vita, trasformando un trauma e una ferita in un’opportunità. Altri invece, soprattutto quelli che si trovano più lontano, cominciano già a progettare di ritornare. “Non è ovviamente una decisione lucida: da un lato la voglia di tornare è fortissima per motivi culturali di appartenenza, e in secondo luogo per le notizie che arrivano. Nonostante il grande accesso all’informazione, la visione del Paese [l’Ucraina, ndr] che hanno è spesso molto esagerata dalla propaganda che racconta di un Paese sì in guerra, ma tranquillo e super mega vivibile”. Un Paese in guerra, però, non può essere sicuro; anche in città in apparenza tranquille, come Leopoli, arrivano razzi che puntano alle strutture energetiche, un problema non solo per il pericolo in sé di un razzo che esplode a poche centinaia di metri da te, ma anche per il fatto che l’inverno in Ucraina è particolarmente rigido e senza la possibilità di accendere il riscaldamento o una stufa elettrica, la sopravvivenza diventa più complicata.

In Polonia grandi attori umanitari, come le Agenzie UN e Oxfam, collaborano spesso con Soleterre perché è l’unica che offre un supporto integrale alla salute mentale: individuale e adattato in base ai bisogni del beneficiario. Una volta individuato il bisogno specifico, la persona viene assegnata a una delle psicologhe, quella che ha la specializzazione nell’ambito di necessità, come per esempio violenza di genere o sessuale, dipendenze, infanzia o disabilità. Operare in questo contesto, però, non è semplice. L’ostacolo più grande, oltre agli attacchi a tappeto iniziati ad ottobre che rendono gli interventi umanitari in Ucraina quasi impossibili, è lo stigma che circonda la salute mentale e le figure dello psichiatra e dello psicologo nella cultura ucraina. “In passato, sotto il regime sovietico, la psicologia e la psichiatria venivano usate come un’arma per incarcerare nemici politici. Le nostre psicologhe hanno sviluppato strategie di approccio per far sì che possano arrivare al paziente e creare un legame di fiducia, senza mai menzionare direttamente la loro professione”.


Altro grande problema è stato invece l’atteggiamento di molti operatori umanitari nei confronti dei richiedenti asilo, sia ucraini che non.

Da una parte abbiamo i cittadini ucraini, immediatamente accolti da un numero impressionante di riscorse economiche e umane, che tuttavia non hanno tenuto in considerazione il background culturale ed economico delle persone che desideravano aiutare. “Ci sono state delle resistenze [da parte dei rifugiati ucraini, ndr], una paura di essere trattati come stupidi o come poveri; molti si sono sentiti offesi nell’orgoglio a essere trattati come poveracci, mentre stavano “solo” scappando dalla guerra. Non c’è stato molto tatto o attenzione alla dignità della persona a 360 gradi, vanificando in parte tutto il lavoro che Soleterre fa per mantenere la dignità e la salute mentale integri”. Un tatto che, a dire la verità, manca ormai da tempo a questo lato del mondo.

Dall’altra abbiamo i cosiddetti “migranti di Paesi terzi”, ovvero persone risiedenti in Ucraina ma senza la nazionalità o, detto in modo più schietto e brutale, i “non bianchi”, i “troppo poco europei”, i rifugiati di “serie B”; per loro è stato più difficile riuscire lasciare il Paese in guerra e, poiché non gli veniva riconosciuto lo status di rifugiati, era impossibile accedere ai servizi cui un rifugiato ha diritto. Si ritrovano dunque ancora oggi costretti a rischiare la vita, di notte con temperature sotto lo zero, nei boschi al confine con la Bielorussia, per cercare di riuscire a scappare dall’Ucraina. Persone che scappano da un Paese in guerra e rischiano la vita a causa dell’impossibilità di raggiungere un posto sicuro con mezzi legali, cui dovrebbero avere diritto per il semplice fatto di essere esseri umani che scappano da un conflitto. Suona familiare?

Tra tanta sofferenza e distruzione, fisica ma soprattutto psicologica, a Gioele è rimasta impressa l’oncologia pediatrica. “Sentire le loro storie mi ha colpito. Già un bambino con un tumore è la cosa più drammatica, ma un bambino con tumore che è costretto a scappare e rischia la vita per colpa di una guerra è il fallimento dell’umanità. Non credo di aver mai visto una categoria così vulnerabile quanto quella dei bambini col cancro che non si possono curare perché devono scappare da un nemico ancora più aggressivo del cancro”.


Verso la fine dell’intervista arriviamo a parlare dei media e della narrazione che fanno della guerra. “Quello che mi riportano dall'Italia è che non se ne parla più o se ne parla poco, oppure sono informazioni filtrate in modo tale che si riporti solo della notizia orribile, perché la quotidianità della guerra non interessa. […] Non emerge la tragicità di un anno in guerra, una guerra che è quotidiana […] Lo vediamo noi che cerchiamo di raccogliere i pezzi delle persone”.


Qual è il messaggio che vorresti che arrivasse?

“Si dovrebbe parlare più delle persone, di quelli che sono rimasti dall’inizio o di quelli che sono rientrati, per cercare di trasmettere al mondo cosa vuol dire vivere la propria quotidianità in guerra. La giornata può cominciare normale, poi suona la sirena e la città si riempie di soldati. Ti ricordi che è un Paese in guerra. Le persone hanno bisogno e diritto a una normalità, ma questo non vuol dire che vivere una normalità in guerra sia una normalità sana.

Questo è un messaggio che deve passare per evitare che l’esistenza stessa di questo conflitto venga messa in discussione. È come se dovessero pensare necessariamente al Paese intero completamente distrutto, tutti morti o tutti tristi, mentre gli ucraini fanno uno sforzo enorme per essere resilienti e resistere. L’europeo medio può credere a una guerra solo se vede distruzione e non può credere che le persone cerchino di rifarsi una vita o ricercare una normalità con resilienza.”


Ecco di questo dovremmo parlare: delle storie di questa popolazione civile vittima della guerra e della loro resilienza.


Fonte immagine di copertina: Soleterre

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