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  • Immagine del redattoreVictoria Atzori

La mia esperienza dell’accoglienza: ripartire dai piccoli gesti


“Kabul cade e il presidente Ghani fugge all’estero. Dopo 20 anni di guerra l’Afghanistan torna in mano ai talebani”. (1)


Sin da subito mi sono chiesta cosa potessi fare per aiutare la popolazione afghana nel mio piccolo. Volevo fare qualcosa per assicurare un futuro migliore a queste persone, ma nessuna risposta alla mia domanda sembrava all’altezza di ciò che stava accadendo a migliaia di chilometri da me.

Ho iniziato a confrontarmi con i miei amici e ci siamo resi conto che le uniche cose che potevamo fare erano richiedere corridoi umanitari rivolgendoci alle autorità competenti e aiutare, attraverso donazioni, le associazioni impegnate nel territorio afghano. Continuavo, tuttavia, a sentirmi impotente di fronte al dramma che si stava consumando dall’altra parte del mondo.


A fine agosto mio padre mi chiama e mi dice: “Vichi abbiamo la possibilità di accogliere dei profughi afghani”.

Nella cooperativa in cui mio padre è presidente si accolgono richiedenti asilo dal 2015 e con la mia famiglia abbiamo avuto modo di dare il nostro contribuito nella gestione dell’accoglienza con attività di volontariato. Sono passati ormai sei anni dall’inizio di questa esperienza però ogni arrivo è ancora in grado di suscitare emozioni molto forti e diverse tra loro. Ero felice di avere la possibilità di aiutare queste persone a rifarsi una nuova vita lontano dagli orrori che continuano a consumarsi nel loro Paese, ma allo stesso tempo continuavo a chiedermi se davvero potessi essere all’altezza della situazione.


Nonostante i diversi anni di esperienza nel campo dell’accoglienza questa è stata del tutto nuova e diversa rispetto alle altre. Sino ad ora i ragazzi che abbiamo accolto raggiungevano l’Italia senza i propri cari. Da circa un mese, invece, ci siamo ritrovati ad accogliere interi nuclei familiari, motivo per il quale ci siamo sin da subito impegnati per assicurare spazi in cui vivere uniti e farli sentire come se fossero a casa loro.


Ci sono tante famiglie e ciascuna di esse ha una storia diversa. I bambini hanno un’età compresa tra i due mesi e gli undici anni: alcuni di loro hanno avuto la fortuna di raggiungere la Sardegna con i propri genitori; altri, invece, sono arrivati accompagnati solo ed esclusivamente da zie o sorelle in quanto i genitori, pur di assicurare loro una vita serena, hanno deciso di affidarli ad altre persone.

Sapere che una madre è stata in grado di affidare il proprio figlio ad altri familiari nella speranza di un futuro migliore, con la consapevolezza che probabilmente non lo vedrà mai più, mi ha fatto capire quanto effettivamente sia grave il dramma che si sta consumando in Afghanistan.


L’amore che riceveranno da me e dalle persone che lavorano nella cooperativa non sarà mai paragonabile a quello di una madre o di un padre, ma faremo di tutto per assicurare loro un futuro pieno di amore e serenità. Sin da subito abbiamo instaurato un bellissimo rapporto di fiducia e rispetto reciproco, e se in un primo momento sembravano tutti molto timidi, dopo poco tempo ci siamo ritrovati a ridere, scherzare, giocare e raccontarci le nostre storie.

Non tutti parlano l’inglese, la maggior parte di loro parla Pashtun o persiano, ma le differenze linguistiche non sono state un ostacolo insormontabile. Ogni giornata trascorsa con loro è speciale a modo suo. Abbiamo avuto modo di confrontarci sulle tradizioni dei nostri Paesi e approfondire i discorsi sulle nostre culture.

Con i più piccoli andiamo tutti i giorni al parco giochi del paese, dove hanno modo di conoscere i bambini del posto e di giocare con loro.

Una frase che mi ha colpito particolarmente è stata: “In Afghanistan avevamo tutto, ora cerchiamo di divertirci con il poco che ci è restato”.




In foto: I bambini giocano nel piazzale della cooperativa. Appartengono alle 4 famiglie presenti nel centro di prima accoglienza di Sini

(foto di Matteo Pisu)


I bambini arrivati a Sini, nella fuga dalla loro terra hanno dovuto abbandonare i loro giochi e le loro playstation, e con grande spirito di adattamento, nel giro di brevissimo tempo, sono riusciti a trasformare le cose più semplici della vita quotidiana in un gioco. Anche da questi comportamenti si intravede la forza di chi, pur ricostruendo da principio la sua vita, si è lasciato conquistare dalla fantasia e dal divertimento che devono caratterizzare l’infanzia.

Confrontandomi con loro ho scoperto che non avevano mai visto il mare, motivo per il quale abbiamo deciso di trascorrere qualche pomeriggio nelle spiagge dell’oristanese.

Ci tenevo tanto a farglielo conoscere. William James diceva che “siamo come isole nel mare, separate in superficie ma collegate nel profondo”. E la sensazione è stata quella che avesse ragione nel dirlo.


Per questi ragazzi che si sono ritrovati a dover scappare dalla propria casa e abbandonare tutto, compresi i loro amici, l’aspetto più importante dell’accoglienza è certamente quello dell’integrazione all’interno della nuova comunità. Per questa ragione, con alcuni di loro ed altri amici di Sini, abbiamo deciso di passeggiare per le vie del paese. È stato un momento molto costruttivo, durante il quale abbiamo imparato tanto dalle rispettive esperienze e i ragazzi afghani hanno avuto modo di conoscere una comunità che non li lascerà soli.

Spesso alcuni abitanti di Sini mi chiedono: “cosa possiamo fare per aiutarli?”.


Io credo che molto spesso i piccoli gesti valgano più di qualsiasi altra cosa: una passeggiata, una partita a calcio, un caffè, un messaggio possono essere in grado di dare una svolta alla loro giornata, e rappresentare il punto di partenza per chi ha perso tutto e all’interno di una comunità vuole costruirsi una nuova vita.


In foto: Atiullah racconta a uno dei nostri inviati le difficoltà del fuggire dall’Afghanistan controllato dai Talebani. (foto di Matteo Pisu)


Ma anche tutti noi altri possiamo far qualcosa. Continuare a informarsi e discutere su ciò che sta accadendo in Afghanistan può rappresentare un punto di partenza; rivolgersi alla propria classe politica chiedendo azioni concrete contro i talebani; contribuire con piccole donazioni alle

organizzazioni umanitarie stanziate nel territorio afghano può esserlo altrettanto.

Per queste persone che da un giorno all’altro hanno perso la propria libertà e stanno vivendo una delle più grandi crisi umanitarie di tutti i tempi anche una piccolissima azione può fare la differenza.


Per approfondire sul tema della crisi in Afghanistan…






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