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  • Immagine del redattoreGiulio Ardenghi

Fuori la politica dalla scuola?


L’anno è il 1810, il luogo è Yverdon, in Svizzera. Il rivoluzionario e studioso francese Marc-Antoine Jullien de Paris, considerato il padre dell’educazione comparata, incontra il famoso educatore Johann Heinrich Pestalozzi, che proprio a Yverdon aveva stabilito il suo istituto. Jullien ne è entusiasta, tanto che manderà alcuni dei sui figli a studiare da Pestalozzi e scriverà delle opere sul suo metodo, ma, quando offre all’educatore svizzero il suo aiuto in campo organizzativo, questi rifiuta, poiché è preoccupato che la presenza di un’agenda politica possa inquinare la bontà della sua pedagogia.


Sul fronte opposto possiamo trovare il brasiliano Paulo Freire, che, nel 1968, scrive la sua opera più famosa: Pedagogia degli oppressi, in cui articola il suo metodo educativo e il suo pensiero interamente sulla base di una filosofia di stampo marxista.


Questo confronto tra due giganti della pedagogia è utile per capire che il dibattito sul peso che la politica debba avere sull’educazione (e viceversa) è più complicato di quello che sembra, e che concludere sbrigativamente che la politica debba stare lontano dalle aule scolastiche potrebbe non rispondere a tutte le domande.


Se vogliamo, possiamo tornare ancora più indietro, fino a una delle cinque antinomie pedagogiche, quella che passa tra formazione umana e formazione sociale. In breve, l’educazione deve, tra le altre cose, promuovere lo sviluppo dello spirito critico della singola persona, ma deve anche far sì che essa sappia integrarsi nella cultura e nella società in cui vive. La tensione tra queste due proposizioni appare evidente quando ci si rende conto che nessuna società è perfetta, e che quindi lo spirito critico dei suoi membri è necessario perché possa progredire sempre di più, ma che lo stesso spirito critico porta i membri a mettere in dubbio e quindi a protestare contro alcuni degli equilibri della società, e questo produce instabilità.

Il problema precipita quando si vive in un contesto che ha interesse a sopprimere lo spirito critico delle persone che ci vivono, come nel caso delle dittature. In questo caso, il sistema scolastico sarà improntato a un addestramento piuttosto che a un’educazione, spesso basato su quello che Katharina Rutschky chiama pedagogia nera[1], ovvero una serie di pratiche fisiche e mentali che non hanno lo scopo di sviluppare le capacità dell’educando ma di estirparle e di manipolare il suo carattere.

Tuttavia, se per definizione un’antinomia non può mai essere totalmente risolta, è comunque possibile ridurla al minimo cercando di armonizzare le due proposizioni il più possibile. Nel nostro caso, ciò non può che significare che è la democrazia il sistema di governo che più favorisce un’educazione sana che possa sviluppare sia il senso critico di ognuno sia stimolare la sua partecipazione nella società.


Perché ciò possa avvenire, comunque, è necessario che a scuola si parli di politica. Non perché gli insegnanti possano sentirsi liberi di fare propaganda per il loro partito, visto che quello si avvicinerebbe molto di più alla prospettiva dell’addestramento di cui parlavamo prima, ma perché gli studenti devono essere in grado di partecipare alla società in cui vivono nel modo più lucido e libero da preconcetti possibile, ed essere messi nelle condizioni di poter trasformare il loro contesto in uno sempre migliore.

D’altronde, la politica influenza già i sistemi educativi sia scolastici che extrascolastici, basti pensare alla semplice esistenza di un Ministero dell’Istruzione nel primo caso e dei dibattiti che guardiamo mentre siamo a tavola nel secondo. Ma se c’è sempre il rischio, in quei casi, che si incappi in imposizioni esterne (sia da parte di chi ha istituzionalmente più potere sia di chi fa la voce più grossa), gli insegnanti hanno il ruolo, insieme ai loro allievi, di creare le condizioni per cui ognuno possa raggiungere le sue conclusioni, anche politiche, autonomamente e in un ambiente amichevole e sereno. In questo modo, gli studenti non arriveranno necessariamente alle stesse conclusioni, ma saranno in grado di pensare alla politica e di fare politica con rispetto e apertura mentale, anche quando questo significa dover cambiare idea.

[1]Alcuni pedagogisti e filosofi dell’educazione sostengono che “pedagogia nera” sia un ossimoro, poiché lo scopo dei processi educativi è sempre lo sviluppo dell’allievo, e qualunque pedagogia che mira all’esatto contrario non si può considerare affatto una pedagogia

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