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  • Francesco Serra

Prima dei nuraghi: la Sardegna nell’età preistorica – Parte I


Statuina di “Dea Madre” dalla necropoli di Cuccuru Is Arrius a Cabras (facies di Bonu Ighinu), esposta al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (Zhistorica)

Se dovessimo pensare alle origini della storia sarda, a primo impatto verrebbe da ricondurre la nostra mente direttamente alla civiltà nuragica, per via della sua immensa mole di testimonianze archeologiche realizzate in epoca antichissima (grossomodo II millennio a.C.) e sopravvissute al tempo in maniera così tenace che tutt’oggi monumenti come nuraghi, tombe di giganti, pozzi sacri e tanti altri risultano parte integrante e imprescindibile del paesaggio isolano. 


Eppure, per quanto sia una considerazione solo in apparenza scontata, quella nuragica non è certo l’unica epoca degna di nota e soprattutto non sta all’origine della plurimillenaria storia della Sardegna. Infatti, già diversi millenni prima che strutture come i nuraghi fossero concepite, si erano sviluppate sull’isola varie culture che tutto sommato hanno restituito numerose testimonianze materiali e che convenzionalmente indichiamo come “prenuragiche”. Va precisato che questa definizione di comodo, coniata dai primi studiosi che si approcciarono effettivamente alla preistoria sarda, risulta piuttosto impropria e fuorviante, in quanto lascia intendere erroneamente che ci fosse una connessione più o meno diretta con la successiva civiltà nuragica, nell’ambito di un processo evolutivo rigidamente lineare, senza contare poi il fatto che col termine “prenuragico” sembra che si voglia quasi alludere a un’importanza secondaria per tutto ciò che è venuto prima dei nuraghi.

Sebbene da un lato non sia sbagliato affermare che tali culture abbiano posto alcune basi per lo sviluppo dell’epoca nuragica, esse mostrano in realtà tutta una serie di manifestazioni culturali ben distinte fra loro e sviluppatesi autonomamente, in certi casi senza nemmeno precludere degli influssi esterni all’Isola, e tutto ciò in tempi che risultavano già remoti agli stessi Nuragici.  


Ma, innanzitutto, a quanto risalgono le prime presenze umane in Sardegna?

Bisogna ammettere che è una questione oltremodo complessa, poiché purtroppo risulta enormemente difficile ritracciare per epoche così remote dei contesti archeologici affidabili, cioè poco o nulla sconvolti dalle azioni del tempo, e che siano in grado di restituire materiale sufficiente dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Benché gli studiosi stiano attualmente discutendo sull’effettiva presenza dell’uomo già nel Paleolitico Superiore (36.000 – 10.000 anni fa circa) in particolare sulla base di alcune probabili tracce provenienti dalla Grotta Corbeddu a Oliena [1], ad oggi le più antiche evidenze di frequentazione antropica stabile in Sardegna provengono dal sito di Su Carroppu, nei pressi di Carbonia. Si tratta di un riparo sotto roccia in cui sono stati intercettati i resti di alcune sepolture della fase mesolitica, le cui ossa umane si sono conservate in condizioni sufficientemente buone da poter compiere delle analisi sia al radiocarbonio sia genetiche su di esse. È emerso dunque che tali reperti osteologici fossero collocabili cronologicamente fra il X e IX millennio a.C., mettendo in evidenza un patrimonio genetico ben differente rispetto a quello delle genti che qualche millennio più tardi avrebbero abitato la Sardegna [2].


Attività di scavo archeologico presso il riparo di Su Carroppu (unica.it – News)

Infatti, nell’ambito del VI millennio a.C. la Sardegna, assieme alla Corsica, fu interessata dal processo di “neolitizzazione”, ossia quel fenomeno di popolamento antropico del continente europeo avvenuto in maniera graduale e aritmica, partito dalle zone del Vicino Oriente a seguito della cosiddetta “rivoluzione neolitica”, che è contraddistinta dall’adattamento a un sistema socioeconomico più sedentario e incentrato sulla sussistenza agropastorale, per cui molti gruppi umani sentirono l’esigenza di andare alla ricerca di nuove terre da coltivare [3]. Ed è proprio in seno a questo evento dilatato nel tempo e nello spazio che nacquero sull’isola le prime manifestazioni culturali propriamente dette, che gli archeologi nel linguaggio scientifico chiamano facies. Senza dubbio tra le più antiche e importanti facies [4] regionali vi sono quelle di Bonu Ighinu, inquadrabile nella prima fase del Neolitico Medio (4900-4400 a.C.) e caratterizzata dalla presenza all’interno di molte sepolture delle cosiddette “Dee Madri”, famosissime statuine antropomorfe comuni a praticamente tutto il panorama preistorico europeo, ma la cui valenza simbolica ha lasciato in Sardegna un’impronta talmente pronunciata nel tempo da riuscire a influenzare persino il folklore più recente. Tradizionalmente la figura della Dea Madre è associata al culto fertilistico, connesso al mondo funerario tramite il concetto di rinascita e ritorno alla Madre Terra, che sarebbe appunto personificata da queste statuine, i cui connotati femminili sono spesso posti in risalto. Tuttavia, non è affatto escluso che tali manufatti potessero rappresentare in aggiunta, o in alternativa, una sorta di status symbol del defunto, oppure persino un antenato comune a una cerchia elitaria, dato che non tutte le sepolture di questa fase hanno restituito Dee Madri fra il corredo di accompagnamento [5].


Un altro elemento assai emblematico di tutto il Neolitico sardo è sicuramente l’ossidiana, che potremmo definire non a torto come l’“oro nero” della preistoria. L’ossidiana, che dal punto di vista geologico si tratta di una roccia vulcanica nata dal rapido raffreddamento della lava una volta entrata a contatto con l’atmosfera, possiede tuttora uno dei principali affioramenti del Mediterraneo Occidentale proprio in Sardegna, precisamente sul massiccio del Monte Arci in provincia di Oristano, che ha consentito praticamente da subito lo sfruttamento di questo particolare materiale da parte dei primi abitanti neolitici dell’isola. Rispetto a tutte le altre risorse litiche disponibili all’epoca, l’ossidiana permetteva infatti di ricavare schegge molto sottili e taglienti, in modo tale da poter realizzare strumenti da taglio utili nella caccia e nella lavorazione artigianale. Le proprietà di questo “oro nero” erano talmente note e apprezzate in epoca preistorica che addirittura in diverse località fra il Nord Italia e il Sud della Francia furono rinvenuti strumenti litici ricavati proprio dall’ossidiana del Monte Arci, databili pure alle fasi iniziali del Neolitico Antico (5900-5800 a.C.). Ciò dimostra come persino in epoche così precoci le comunità umane fossero riuscite a strutturare fra di loro una rete di contatti e di interscambio delle risorse nonostante le barriere naturali e le modalità di spostamento assai rudimentali [6]. Non è poi escluso che l’impiego dell’ossidiana fosse affiancato da una valenza magica o sacra, considerando la sua intensa colorazione nera dai riflessi lucenti, che avrà suscitato un certo effetto fra coloro che si approcciarono a questo materiale in tempi così ancestrali. Appare suggestivo pensare che tutt’oggi nella tradizione sarda l’ossidiana possieda delle proprietà amuletiche, con la quale, in alternativa all’onice, si può realizzare Su Coccu, un particolare ciondolo protettivo in grado di catalizzare su di sé i cattivi influssi.


Scheggia lavorata in ossidiana dalle pendici del Monte Arci (foto di F. Serra)

Successivamente, nell’arco del Neolitico Recente (4000-3300 a.C.), si sviluppò in Sardegna una delle culture più interessanti dal punto di vista di una produzione “artistica” ante litteram, ossia la facies di Ozieri, detta anche di San Michele, l’omonima grotta in cui vennero rinvenuti primi manufatti. La produzione ceramica di questo periodo, infatti, si distingue per la vivace decorazione, incisa o dipinta, proponente motivi geometrici soprattutto lineari, spesso accompagnati da figure antropomorfe e zoomorfe stilizzate [7]. Una spiccata propensione alla resa geometrica delle figure si evince pure nelle statuette femminili di questa fase, stilisticamente ben diverse da quelle più volumetriche della facies Bonu Ighinu.


Statuetta antropomorfa da Turriga, località presso Senorbì (facies di Ozieri), esposta al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (foto di F. Serra)

Ma la facies di Ozieri è nota soprattutto per aver realizzato quelle che secondo le leggende sarde sarebbero le case delle fate o delle streghe: le domus de janas. Chiaramente non erano abitazioni di esseri sovrannaturali, bensì tombe a una o più camere ipogeiche, vere e proprie grotte artificiali scavate nella roccia e diffuse in tutto il territorio isolano, registrando un numero distante da quello complessivo dei nuraghi ma pur sempre esorbitante (attualmente si contano circa 3500 domus de janas). Esse erano sepolture collettive, dunque dovevano ospitare le spoglie di più persone, verosimilmente appartenenti allo stesso gruppo famigliare o sociale. Purtroppo in questi ambienti è difficile rintracciare dei contesti integri ascrivibili alla facies Ozieri, a causa del frequentissimo riutilizzo delle domus in epoche successive, in taluni casi fino addirittura al Medioevo. Tuttavia, permangono degli indizi che potrebbero suggerire qualche aspetto sulla società e sulle credenze dell’’epoca. Innanzitutto, l’esistenza stessa delle domus de janas lascia intendere che dietro vi fosse tutta un’organizzazione sociale capace di progettare e realizzare questi ambienti, mobilitando più individui specializzati in differenti mansioni, in modo tale da ricavare degli spazi funerari appositi per una parte della collettività che evidentemente possedeva le giuste risorse o il giusto status per potersi permettere questo tipo di sepoltura. Gli studiosi non escludono poi che la pianta delle domus possa intenzionalmente rimandare alla struttura abitativa, essendo facilmente individuabili elementi quali porte, corridoi di accesso, anticelle, camere con “letti” ricavati dalla roccia per adagiare il corpo del defunto, soffitti conformati a doppio spiovente e decorazioni varie che danno effettivamente l’idea di essere all’interno di case per viventi. E proprio fra il repertorio decorativo vi è una delle principali chiavi di lettura che in parte fa ancora discutere gli studiosi, ovverosia i rilievi della protome taurina, una rappresentazione stilizzata della testa di toro piuttosto frequente nelle pareti di molte domus, che secondo alcuni sarebbe una sorta di controparte “maschile” del culto della Dea Madre, quindi sempre legato al concetto di fecondazione e rinascita; secondo altri invece potrebbe indicare uno status symbol, un segno di prestigio sociale e ricchezza economica, supponendo che il possesso di animali di grande taglia non dovesse essere prerogativa di molti individui [8].   



Ad ogni modo, l’orizzonte culturale del Neolitico Recente ci mostra come, attraverso il fenomeno delle domus de janas, le comunità umane in Sardegna si stessero avviando verso una differenziazione sociale interna, che sarebbe diventata sempre più marcata dal punto di vista gerarchico, a causa di un fattore di lì a breve talmente influente e indispensabile da scandire la nomenclatura delle epoche per i millenni successivi: il metallo. La Sardegna si stava così preparando ad entrare nell’Età del Rame.


Continua…

 

In ricordo di Prof. Carlo Lugliè  


Fonti:

[1] Martini 2009, p. 22; Martini 2017, pp. 21-22.

[2] Lugliè 2014, pp. 312-323; Lugliè 2017, pp. 39-40; Lugliè 2018, pp. 286-291.

[3] Lugliè 2017, pp. 37-64; Lugliè 2020a, pp. 43-49.

[4] Spesso il nome di una facies viene stabilito convenzionalmente sulla base dei suoi primi luoghi di ritrovamento archeologico.

[5] Usai 2009, pp.50-58; Lugliè 2017, pp. 49-63; Lugliè 2020b, pp. 126-133.

[6] Briois et alii 2009, pp. 805-816; Lugliè 2017, pp. 41-45.

[7] Moravetti 2017, pp. 65-80.

[8] Tanda 2017, pp. 111-135; Tanda 2020, pp. 244-256.

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