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  • Immagine del redattorePriscilla Pili

Io (non) sono un oggetto


Marina Abramović, la ‘’grandmother of performance art“ come lei stessa si definisce, è una delle artiste più note e discusse del nostro tempo, le cui performance estreme sono state fortemente contestate fin dagli esordi a inizi anni ’70 nella città di Belgrado, dove è nata. Una vita fuori dagli schemi, vissuta con l’obiettivo di conferire valore artistico alle sue azioni, alzando sempre la posta in gioco e mettendo a dura prova corpo e anima, spingendoli oltre i limiti, verso il cambiamento.


"Siamo noi che creiamo i limiti, la cosa più importante è oltrepassarli"


Guerriera della performance, ha fatto del suo corpo il principale strumento di libertà dalle convenzioni sociali. In particolare, l’Abramović si rivolge alle donne, invitandole a smetterla di sentirsi in colpa e vittime.

Rhythm 0 è sicuramente la performance che più di tutte ha scandalizzato e sconvolto il pubblico e i media, anche se a lei questo non è mai importato. Nel 1974, presso lo Studio Morra di Napoli, predispose 73 oggetti all’interno di una stanza: 72 in grado di provocare piacere (come piume e fiori) o dolore (come coltelli, rasoi e una pistola carica); l’ultimo oggetto restante era la stessa Abramović. Su un biglietto, lasciato sul tavolo insieme agli altri arnesi, la performer aveva infatti scritto ‘’Io sono un oggetto’’.

Assuntasi la responsabilità di ciò che sarebbe accaduto nel corso dell’azione, l’artista rimase immobile per sei ore, a disposizione del pubblico libero di interagire con lei, facendo anche uso dell’arsenale disposto sul tavolo. Le prime tre ore trascorsero senza problemi, con i presenti che si limitarono a farle il solletico o ad alzarle le braccia come ad una marionetta, poi il cambio repentino e il crescere della violenza: le sue vesti vennero tagliuzzate con lamette e forbici, come la sua stessa pelle; qualcuno le tagliò il collo per poi succhiarle il sangue; venne legata e palpata; venne frustata sul ventre con le spine delle rose; qualcuno le asciugò le lacrime; a un certo punto la pistola carica le venne messa in mano, puntandola alla gola, con il dito sul grilletto.


“Ci sono 72 elementi sul tavolo e si possono usare liberamente su di me. Premessa: io sono un oggetto. Durante questo periodo, mi prendo la piena responsabilità di ciò che accade.”


La reazione degli spettatori, vera performance, si divise tra gli istigatori della violenza e coloro che tentarono di difendere l’artista inerme, che per tutto il tempo restò fedele alla disciplina che da sempre la contraddistingue.

Allo scadere delle sei ore, Marina si rivestì e camminò per la stanza, guardando coloro che poco prima l’avevano aggredita: i partecipanti evitarono il suo sguardo. Gli istinti più violenti venuti allo scoperto erano già stati dimenticati.

Il lavoro dell’artista ha dimostrato quanto velocemente una persona possa arrivare ad abusare, in circostanze favorevoli, di chi in quel momento riveste la parte del più debole. La sua immobilità è divenuta specchio di chi non è in grado di lottare e difendersi.


Questo lavoro rivela qualcosa di terribile sull’umanità. Dimostra quanto velocemente una persona può far male in circostanze favorevoli. L’esperimento mostra come sia facile disumanizzare, abusare di una persona che non lotta, che non si difende. Dimostra inoltre che, fornendo lo scenario adatto, la maggior parte della persone apparentemente “normali” può diventare estremamente violenta.


46 anni fa, l’Abramović, che solitamente mette alla prova i propri limiti, ha sfidato soprattutto gli spettatori e le loro pulsioni, ricordando infine loro di non essere un oggetto.

46 anni dopo, la dimostrazione dell’artista risulta essere drammaticamente attuale ed è ancora necessario ricordare che la violenza di genere rappresenta una problematica di proporzioni globali enormi che riguarda oltre il 35% delle donne in tutto il mondo. Il problema continuerà ad esistere finché ognuno di noi non deciderà da che parte schierarsi: istigatori o difensori.


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